Tra scienze naturali e humanae litterae:

la formazione preistorica

Gabriella Brusa-Zappellini

Premessa  

C’è un quadro di René Magritte del 1928, Attempting the Impossibile, inquietante e strano: un pittore, con la tavolozza nella mano sinistra e il pennello nella destra, sta dipingendo una figura femminile; un nudo, secondo la miglior tradizione accademica.

 

 

L’opera è, da un certo punto di vista “autobiografica”: rappresenta un pittore nell’atto di dipingere.  L’artista, però, è sorpreso mentre dipinge la donna non su una tela, ma dinanzi a sé, nello spazio della sua stanza.  Potremmo quasi dire, nella realtà, se non fosse che la realtà, in questo caso, è quella interna del quadro, cioè della simulazione pittorica. Potremmo aggiungere, a grandezza naturale, se non fosse che qui la misura è data dalla scala a dimensioni ridotte del dipinto. L’artista e la modella sono, dunque, della stessa natura virtuale, entrambi partecipi del medesimo artificio: vivono solo dentro la rappresentazione. Eppure, se la figura che esce dal pennello fosse dipinta su una tela, collocata su un cavalletto o delimitata da una cornice, certamente l’opera non provocherebbe quell’effetto straniante che invece immediatamente suscita.   Anche la fiction ha dunque delle regole di credibilità la cui infrazione rompe il gioco proiettivo delle aspettative di senso, creando sconcerto. Il familiare diventa non- familiare. Perturbante, direbbe Freud.

In questo caso, lo statuto di simulacro dell’opera appare, paradossalmente, potenziato al secondo grado.

La ricerca di una coincidenza percettiva tra immagine e realtà, propria di tutte le correnti realistiche, sembra raggiungere qui un punto di saturazione in cui mondo sensibile e mondo dipinto si riversano l’uno nell’altro senza soluzione di continuità. L’iper-realismo di Magritte evidenzia l’impossibilità dell’intera operazione pittorica, svelandone i desideri irrealizzabili di onnipotenza.

“L’onnipotenza dei pensieri- scive Freud- si è conservata nella nostra civiltà soltanto in un settore: quello dell’arte. Solo nell’arte succede ancora che un uomo dilaniato dai desideri realizzi qualcosa di simile al soddisfacimento, e che questo gioco, grazie all’illusione artistica, evochi reazioni affettive, come se fosse una cosa reale”.

E’, dunque, un gioco evocativo ad animare quel tentativo impossibile che sta alla base di tutta l’arte figurativa, anche se, dei suoi sortilegi originari, non sopravvivono, nel realismo moderno, che residui accidentati e frammentari. Relitti demagicizzati di una cultura arcaica che, assai prima di abbandonarsi ai miti di Pigmalione e di Pandora, ci ha lasciato le testimonianze straordinarie dell’arte paleolitica e le grandi  pareti dipinte, pulsanti di vita animale dentro le viscere della terra.

Imparentate coi sogni, le prime immagini dovevano possedere un’energia evocativa del tutto indipendente dai loro ideatori e capace di attivare con forza le facoltà immaginative  di chi ne era immerso.

Noi non conosceremo mai le ragioni profonde che hanno spinto i nostri antenati a esplorare labirinti sotterranei e a dipingere nelle loro stanze buie branchi di cavalli e di uri, di rinoceronti lanosi e di bisonti. E’ del tutto probabile che i cacciatori paleolitici non si insinuassero nelle viscere della terra per dipingere gli animali, ma per andare ad incontrali, riconoscendoli -come grandi esseri zoomorfi- nelle protuberanze delle rocce, nelle fenditure delle pareti ricoperte di calcite. Per quali ragioni?

Risalire indietro nel tempo, alle origini della creatività artistica è, per certi aspetti, un’operazione analoga alla discesa nella vita psichica; in entrambi i casi ci si trova dinanzi alla necessità di una sospensione del senso, immersi in un cono d’ombra che nessuna luce della ragione potrà mai rischiarare totalmente.

Certamente, se queste immagini arcaiche oggi ci colpiscono per la loro incredibile bellezza, alla luce incerta di una fiaccola o di una lampada di pietra dovevano suscitare un impatto illusionistico del tutto sconvolgente, tale da eludere ogni confine fra realtà sensibile e raffigurazione.

Potremmo pensare che sia sgorgata qui, in questo albeggiare della coscienza, una nuova pressione selettiva di carattere emotivo destinata a trovare nei domini dell’arte il suo illimitato territorio di caccia.  Forse per questo, il processo di laicizzazione moderno, che ha via via emancipato la dimensione artistica dalla sua origine rituale e dal suo legame con la magia, non ha mai del tutto sciolto gli enigmi di un agire originario incomprensibile sul piano della pura utilità strumentale. Un agire che ha dato vita, accanto al mondo fenomenico, a un mondo analogo, fatto a immagine e somiglianza del vero, ma vissuto come magica evocazione.

Ora, il sortilegio di questa origine, l’arte se lo è porto dietro nel tempo. Anche nei momenti più luminosi della sua classicità, il suo operare sembra costantemente compromesso da una inconsapevolezza che ne oscura i disegni, confondendo, come già denunciava Platone, i nostri sensi.

 

Contributo al dibattito

Oggi, nel disorientamento attuale in cui la storia sembra aver smarrito il significato dei suoi percorsi, si vanno a cercare nella preistoria, negli strati più antichi della nostra progettualità, quelle risposte sul senso generale dell’esistenza che la contemporaneità non sembra più in grado di dare. Risposte all’apparenza solide, che, incise sulla roccia, hanno saputo attraversare i millenni, giungendo a noi con la forza della loro bellezza.

Il rischio attuale è però quello di inserire il loro linguaggio, per molti aspetti oscuro, in una rete interpretativa di carattere funzionale. Un rischio, se vogliamo, legato a un desiderio non del tutto consapevole, quello di abbandonarsi al “mito rassicurante della semplicità arcaica”.

Sia ben chiaro, non di una semplicità di vita. Il quadro delle origini risente ancora, per molti aspetti, della visione darwiniana, tribolata e a suo modo tragica, della lotta per la sopravvivenza.

Diciamo di una semplicità di risposta: i nostri progenitori rispondevano ai problemi elementari della sopravvivenza in modo semplice e coerente, con riti e culti avvertiti come funzionali alla risoluzione dei loro problemi materiali,dei loro bisogni.

Qui, in questa risposta, apparentemente innocente, sta il rischio di una totale incomprensione. Qui, in questo rassicurante atto di fede che depura le origini da ogni complessità e da ogni autentica tragicità, è nato un equivoco al quale l’atteggiamento scientifico, ridotto a mera competenza tecnica, sta dando certamente una mano.

Ora, che sia fondamentale datare e catalogare i reperti preistorici secondo i più aggiornati criteri della ricerca e che la competenza paletnologica debba formarsi all’interno di un iter accademico di grande rigore scientifico, è una ovvietà. E solo la presenza di certe derive misteriche contemporanee può giustificare la necessità di ribadirla.

Detto questo, è altrettanto ovvio che la scienza non si esaurisce nella tecnica e che, se è importante che lo studioso di preistoria -nel suo concreto operare- sappia (e debba) utilizzare tutti gli strumenti  più aggiornati che le tecniche gli mettono a disposizione, è altrettanto importante che si renda conto del livello di complessità che sta alla base del quadro di vita delle culture delle origini sulle quali sta indagando. 

E’ su questo piano che le capacità di catalogare non sono più sufficienti nella formazione paletnologica, ma vanno integrate con una nuova competenza formativa, quella di dialogare con un universo disciplinare complesso in cui l’antropologia filosofica e l’estetica, la psicoanalisi e la storia dell’arte, la semiotica e la storia delle religioni hanno un peso rilevante.

In questo quadro multidisciplinare, ricco di valenze “umanistiche”, se le tecniche sono ausiliarie, non lo sono però i saperi scientifici. E mi spiego. Per quanto riguarda gli studi paletnologici, discipline come la geologia, la genetica, l’archeozoologia, la geoarcheologia, la palinologia e così via, non sono momenti ausiliari che possono integrare un quadro di senso costruito su basi umanistiche e sorretto da competenze tecniche.

Al contrario. Per gli studi preistorici, queste discipline entrano nell’orizzonte interpretativo, a pieno titolo, con un ruolo euristico  fondamentale. Purché non dimentichino le loro “origini”, cioè quelle della grande tradizione naturalistica all’interno della quale sono nate.

Per concludere. Se lo studioso di preistoria è, in primis, uno scienziato che sa pensare, per la sua formazione è necessaria, soprattutto, una grande scuola di pensiero.

 

 

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