Occhi, begli occhi
Il leone e i riti della piccola morte
*
16 marzo 2002
Tiger!
Tiger! burning bright
In the forests of the night
What immortal hand or eye
Could frame thy ferful symmetry?
W.
Blake, Songs of Experience
1. Nella vallata di Susfanna, a occidente
dell’Atlante sahariano, una grande roccia a picco su un sepolcreto
reca inciso un suggestivo bestiario. Vi compaiono, dall’alto verso
il basso, un leone, alcuni elefanti, giraffe, bufali e antilopi. Il
felino, che sovrasta tutti gli altri animali -e che per primo viene
illuminato dal Sole nascente-, è l'unico a presentarsi col muso
frontale. Cosa piuttosto rara nell’arte rupestre.
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Lastra di Jaschu-Sahara-Atlante
Rilievo di Leo Frobenius
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Le
immagini zoomorfe delle culture preistoriche e arcaiche sono,
infatti, per lo più di profilo o presentano una curiosa prospettiva
ritorta: le corna di certi bovidi, ad esempio, possono essere
frontali mentre la testa e il corpo sono di profilo. Certamente non
mancano le eccezioni e queste riguardano soprattutto, anche se non
esclusivamente, i felini. Già nella grotta paleolitica di Les Trois
Frères, troviamo due leoni che guardano fisso negli occhi chi si
inoltra nell'ultima sala del santuario sotterraneo.
È una particolarità destinata a ricorrere lungo tutto il corso
della storia rappresentativa di questi animali. Dall’età antica
all’età moderna, passando attraverso le belle iconografie del
Rinascimento, gli occhi immoti di un numero infinito di leoni ci
fissano, attraverso il tempo, dai bronzi degli scudi e dai marmi
delle fontane, dai cotti degli edifici e dai fregi degli arazzi. C’è
una ragione in tutto ciò? Alcune tribù africane raccontano che i
leoni erano in passato uomini pazzi e selvaggi dediti al malocchio.
Per questo era necessario, imbattendosi in uno di loro, coprirsi
immediatamente il fallo per scongiurare che il loro sguardo potesse
paralizzare quella sorgente di energia. Secondo i Borgu, se un
cacciatore colpiva un leopardo, perdeva i genitali. È interessante,
a questo proposito, il ricordo, ancora vivo presso alcune
popolazioni fra il Niger e il lago Ciad, delle cerimonie rituali dei
cacciatori Magussaua. Nel momento di passaggio dalla pubertà alla
maturità, gli iniziati, che fino ad allora non avevano “conosciuto”
la donna né erano andati a caccia, venivano condotti nel fitto della
foresta. Qui si lasciavano andare a una danza frenetica ritmata da
una musica ossessiva. A questo punto, sopraggiungeva un leone o un
leopardo - un uomo mascherato da leone o da leopardo possiamo
supporre - che azzannava i genitali dei giovani infliggendo delle
piccole ferite e, in alcuni casi, la stessa perdita di un testicolo.
Dopo questa prova, gli iniziati, tornati al villaggio, potevano
finalmente andare a caccia e accoppiarsi. Presso le tribù dell'Adamaua,
chi praticava la circoncisione portava una maschera di leopardo,
mentre tra i Tschamba gli strumenti per questa operazione rituale
erano conservati in una bisaccia ricavata da una zampa di felino. Il
medesimo “rito di passaggio” prevedeva, in alcune tribù australiane,
la presenza di un grande mostro divoratore dal "ruggito" spaventoso.
Il rumore era, in realtà, provocato da uno strumento di legno il
bull-roar, assai simile al rombo, che veniva fatto girare
velocemente con una cordicella dagli anziani del villaggio. I
giovani atterriti entravano nel ventre del “grande essere” che li
attendeva con le fauci spalancate guardandoli fisso negli occhi.
Solo in un secondo momento sarebbero ritornati alla vita. Ora, le
fauci del mostro erano le porte aperte di una capanna nascosta tra
il fogliame. Anche in questo caso, la circoncisione era considerata
una “piccola morte”, mentre presso certe popolazioni africane il
bull-roar, veniva chiamato "leone". In tutti questi riti, pur
lontani nello spazio e nel tempo, si viene, dunque, a creare una
relazione stretta fra una creatura leonina e l’iniziazione alla
sessualità, una iniziazione che implica un rito in cui si mescolano
l'angoscia di castrazione e il potere perturbante dello sguardo
frontale. Anche nell’antico Egitto, le cerimonie di circoncisione
comportavano prove assai rischiose e l'uso della maschera per i
sacerdoti. Non sappiamo se, alle origini, il travestimento avesse a
che vedere con i felini, ma è interessante rilevare qui che, nelle
più antiche culture della valle del Nilo, alla fine del periodo di
Gerzeh, mentre il leone è del tutto assente dalle decorazioni
vascolari, ricorre invece nei coltelli, come ad esempio, sul manico
del coltello Carnavon, sul coltello Piett-Rivers o sul coltello di
Brooklyn. Coltelli che possiamo ben associare a un uso rituale. Che
nei riti africani la circoncisione fosse affidata a uno
stregone-leone e in Egitto implicasse una pratica di mascheramento,
fa correre il pensiero sia ai leoni frontali della Grotta di Les
Trois Frères che a una delle più antiche statuette preistoriche,
quella di Höhlenstein-Stadel.
Il corpo è antropomorfo ma la testa è di leone. Di che cosa si
tratta? È un talismano? È la rappresentazione dello sciamano e della
sua metamorfosi estatica o la materializzazione del suo animale
custode? O è forse un’immagine legata ai riti iniziatici della
pubertà e alle cerimonie di circoncisione? Di un certo interesse
sono anche due incisioni del Paleolitico Superiore francese: una
rinvenuta in Dordogna, nella Grotta di La Madeleine, l'altra nell'Ariège,
all’interno della Grotta Maussat. Già Leroi-Gouhran le aveva
avvicinate, indicandole come esempio di uno stesso motivo
iconografico, rappresentato una volta in modo naturalistico e una
volta in forma schematica.
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Rilievi di Leroi-Gourhan
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Secondo lo studioso francese, si tratterebbe del tema “dell'orso,
del falco e della vulva” .
La difficoltà di lettura di queste incisioni ci suggerisce però
anche un’ipotesi diversa, cioè che non si tratti della
rappresentazione di un orso, ma di un leone. In questo caso, le
fauci dell'animale avvicinate all'organo genitale maschile (Grotta
di La Madeleine) e alla sua forma schematica (Grotta Maussat)
potrebbero ben adombrare un antico rito di circoncisione. Molto
suggestiva, anche se non possiamo dire fino a che punto pertinente
con queste riflessioni, è la denominazione che nella Britannia
antica aveva una divinità arcaica: Llew Llaw Gyffes, il Leone
“dalla mano ferma”. È evidente che le ragioni di questo appellativo
non rimandano necessariamente all'atto della circoncisione rituale
anche se potrebbero giustificarlo. Dietro questa divinità si
nascondeva probabilmente il dio goidelico Lugh che veniva chiamato
in Irlanda "Lugh dalla lunga mano", una divinità solare che aveva
vinto gli “Africani”, primi abitatori dell'isola con una lancia che
durante il combattimento emetteva terribili bagliori e potenti
ruggiti. Questo “aiutante magico” che fa pensare alle armi degli
antichi invasori dell'Età del Bronzo, potrebbe rimandare però anche
a un contesto precedente, alle zagaglie dei cacciatori arcaici e ai
loro riti d’iniziazione. Certamente siamo dinanzi, anche in questo
caso, a espressioni cultuali diverse e lontane. Da una parte c'è
l'Africa -il grande "paese dell'oro e della notte al di là del
chiaro giorno della storia", come scrive Hegel-, dall'altra ci sono
le culture nordiche, nate fra i ghiacci e le tundre eurasiatiche, le
stesse che hanno prodotto la statuetta leontocefala di
Höhlenstein-Stadel.
Se procediamo però nel tempo, figure antropomorfe con la testa
leonina e la spada affilata sono presenti nel pántheon
anatolico, su quell'altipiano fertile che intratteneva, ancora in
età protostorica, stretti legami con le zone caucasiche e danubiane
e con le loro mitologie arcaiche e che è stato, da sempre, un grande
ponte naturale con l’Africa.
Anche a Roma - ci informa Macrobio - Crono, il dio con la falce che
"castra" il tempo, un dio che proveniva da oriente, era chiamato
Deus leontocefalus.
Si tratta del Kronos mitraico rappresentato in piedi, col corpo
stante, rigido e ieratico, le gambe strettamente unite e la testa di
leone. Spesso è rappresentato fra le spire di un serpente e
accompagnato da un pannello su cui figurano delle tenaglie. Da quali
remote profondità del tempo vengono queste curiose connessioni? Si
tratta forse di un'immagine ancestrale destinata a evocare, dopo
millenni, nelle nostalgie misteriche di una Roma imperiale ormai
laicizzata, l'archetipo della circoncisione e del travestimento
leonino?
Tutto questo è ovviamente meno di un'ipotesi, ma forse più di una
semplice fantasia. Certamente può apparire poco opportuno avvicinare
simbologie che appartengono a culture così diverse ed è evidente
che, in questo modo di procedere, le cautele devono superere di gran
lunga ogni possibile suggestione.
Sta di fatto però che le iniziazioni degli adolescenti presso le
popolazioni dei cacciatori-raccoglitori, dal Nord America
all'Australia, dalla Terra del Fuoco all'Africa e all'Oceania,
prevedevano una circoncisione rituale o comunque mutilazioni nelle
zone genitali messe in relazione, per lo più, col graffio di un
felino mentre, ancora presso molte culture "calde", nelle loro fasi
protostoriche, la lotta col leone - o il leopardo, o il giaguaro -
aveva il significato di un'iniziazione rituale. Come scrive Eliade
"la circoncisione simbolizza la distruzione degli organi genitali da
parte di un animale Maestro d’iniziazione".
Dunque un animale “maestro di iniziazione”, soprannaturale e
carnivoro, uccide la sua vittima per poi farla resuscitare.
L'iniziato che rinasce dopo la morte rituale riveste, in alcuni
casi, la stessa spoglia dell'animale che lo ha restituito alla vita
acquisendo, in tal modo, i tratti della vittima e insieme quelli del
suo carnefice.
Siamo forse dinanzi alla ritualizzazione del desiderio proiettivo
del cacciatore che attribuisce all’animale quel potere – di uccidere
e richiamare alla vita- che vorrebbe detenere per sé allo scopo di
garantirsi, in eterno, la sua riserva energetica? O per esorcizzare
il suo ancestrale senso di colpa?
In età storica, questa stessa ritualità arcaica tenderà a riproporsi
in forma eroicizzata. In diverse aree culturali, il giovane eroe
inizia la sua carriera domando o uccidendo un leone. Pensiamo alla
figura centrale dell'epopea babilonese, a Gilgamesh, il re
semidivino che doma i leoni o al greco Eracle che fa della pelle del
leone nemeo il suo trofeo e la sua caratterizzazione tipologica.
Le rappresentazioni di Gilgamesh del palazzo di Sargon II a
Khorsabad ci mostrano l'eroe in piedi, che ci fissa intensamente
mentre nella mano destra stringe un leone col corpo di profilo e il
muso frontale e nella sinistra impugna un'arma tagliente e ricurva (harpe).
È Gilgamesh, il mitico re di Uruk, o il sacerdote che giunge per
il rito antico? O è lo sciamano-leone che viene a uccidere la
stagione dell'infanzia per inaugurare il tempo nuovo della
giovinezza?
Anche nell'area ebraica, la lotta col leone doveva assumere una
valenza particolare.
Davide prima di uccidere il gigante Golia aveva abbattuto numerosi
leoni (Re 1,17), mentre Sansone aveva salvato il padre e la
madre dall'assalto di un leone inferocito con la sola forza della
sue giovani braccia, dilaniando poi e sbranando la fiera senza
bisogno di alcun coltello (Giudici, 14).
Se allarghiamo ulteriormente il campo, arriviamo a consonanze ancora
più azzardate, ma altrettanto suggestive in cui la lotta con il
leone e il controllo dell'angoscia di castrazione, quel controllo
che legittima il salto dall'infanzia alla maturità, sembrano
coniugarsi in modo diretto.
Il dio Mitra, ad esempio, è spesso rappresentato con la testa
leonina. Durante la celebrazione dei suoi misteri, gli iniziati
portavano una maschera di cervo o di leone, mentre sugli affreschi
che ornavano i Mitrei di Roma, il dio solare appariva nell'atto di
uccidere il toro sacro Lunare al quale uno scorpione stringeva i
genitali. Al di là di tutte le connessioni zodiacali che è lecito
avanzare sulla simbologia di questi particolari edifici cultuali,
torna qui di nuovo la relazione iconografica fra una figura
leontocefala e la pratica della castrazione-circoncisione.
Anche in queste immagini, la caratteristica frontale dello sguardo
permane, come frontali - nonostante il corpo sia di profilo - sono i
leoni dei sarcofagi etruschi, degli stendardi di Ebla e dei fregi
delle briglie degli Sciti. I leoni, dicevano gli antichi, attaccano
a viso aperto, vis à vis potremmo pensare.
Un epiteto ricorrente del leone nella letteratura greca -a partire
da Esiodo- è charopós, cioè “dagli occhi ardenti”. In un noto
scritto del 1919, Freud, commentando un noto racconto di Hoffmann,
riconduce la paura della perdita degli occhi all'angoscia di
castrazione.
"Uno studio sui sogni, le fantasie e i miti ci ha insegnato che
l'apprensione per gli occhi, la paura di rimanere ciechi, spesso è
un sostituto della paura di castrazione" (Il perturbante).
Potremmo quasi pensare che lo sguardo frontale "balza agli occhi" e
li cattura nel medesimo modo in cui la zampata improvvisa dei leoni
africani aggredisce i genitali dei cacciatori e se ne impossessa.
La stessa schematizzazione grafica del volto umano in "occhi-naso",
assai presente negli stilemi iconografici del neolitico, sembra
rimandare in maniera evidente ai genitali maschili secondo una
tipologia ricorrente che evoca il volto della Gorgone, la dea
nefasta "con la morte negli occhi".
Del resto, una relazione stretta fra sguardo e perdita del fallo è
presente nella curiosa leggenda intorno a Tiresia, l'indovino che
divenne donna per aver visto due serpenti che si accoppiavano e per
averne ucciso la femmina. Si tratta, come è noto, dello stesso
Tiresia che rivela a Giocasta la verità su Edipo, l’eroe tragico
vincitore della Sfinge. Questa "massa di libido incestuosa", come
Jung definisce il mostro egizio, con la sua terribile facies
leonina, era infatti portatrice di morte, una morte che, come
condizione d'impotenza radicale, poteva ben adombrare la
fantasia estrema della castrazione.
2. Alla luce di queste considerazioni,
andiamo a ritroso nel tempo fino a raggiungere le prime, favolose
testimonianze delle nostre origini.
Il rapporto fra sguardo frontale, leone e sessualità è presente in
una delle immagini più enigmatiche e suggestive di tutta l’arte
preistorica. Siamo agli inizi del Paleolitico superiore nella Grotta
Chauvet di Vallon Pont d’Arc. Scoperta nel dicembre del 1994, questa
grotta francese che corre dentro la montagna per quasi cinquecento
metri, modellata nella sua lunga storia geologica dalle acque dall’Ardèche,
è straordinariamente bella: gigantesche colate di calcite bianca
simili a immense meduse segnano l’imbocco di lunghe gallerie dalle
pareti lucide e trasparenti come cristalli, mentre stretti corridoi
si alternano a sale dalle grandi cupole fitte di concrezioni
lattiginose e iridescenti nelle zone più vicine all'entrata, opache
e striate di rosso-arancio nei drappeggi più interni.
Non sono però le particolarità naturali a fare di questo luogo
sotterraneo un unicum magico e irreale, quanto piuttosto le
testimonianze, al suo interno, delle nostre più antiche
frequentazioni. Alla memoria geologica si mescola qui la memoria
delle origini
1,
di quel tempo remoto in cui insieme ai primi riti si sono plasmate
le matrici della nostra spiritualità.
Dal piccolo mammut rosso, non lontano dall'ingresso, al gufo che
pende dalla volta del corridoio centrale, fino ai rinoceronti e ai
grandi felini neri dell'ultima sala, un gran numero di animali di
ogni specie si affolla sulle pareti delle stanze più interne
provocando in chi guarda un impatto emotivo forte.
Coi suoi oltre cinquecento dipinti, databili fra 32 e i 20 mila anni
fa, la Grotta Chauvet doveva costituire, fin dagli inizi dell’aurignaziano,
uno dei più antichi e importanti luoghi di culto di tutto
l'occidente.
Lungo le gallerie e le volte, grandi immagini -per lo più dipinte,
raramente incise- mescolano una gran varietà di animali:
rinoceronti, leoni, orsi, cervi, mammut, cavalli, iene, renne si
sovrappongono confusi in branchi o isolati nelle nicchie e sui
pendenti naturali.
L'organizzazione spaziale di queste figure, apparentemente caotica,
è destinata a ritornare nelle pitture successive caratterizzando lo
stile compositivo di tutta l’arte visiva paleolitica: gli animali
vivono in queste profondità senza tempo creando -in chi guarda-
l'effetto illusionistico di un’immersione mimetica in un branco
selvaggio. Di molti è abbozzata solo la testa, di altri sono
accennate soltanto alcune parti del corpo.
Questa “incompiutezza delle forme”, una particolarità già
sottolineata da Leroi-Gourhan, accresce -e non diminuisce- l’effetto
di realtà dell’insieme. In particolari condizioni di illuminazione,
il “non finito” concorre a potenziare il dinamismo vitale delle
figure: lo sguardo scorre con maggior velocità sulle
rappresentazioni incompiute che sembrano muoversi con la stessa
rapidità dell'occhio.
Ma questa caratteristica formale racchiude probabilmente un senso
più profondo. Sulle pareti di argilla, lungo le protuberanze della
roccia, più che "incompiuti" gli animali paiono sul punto di uscire
dalle cavità sotterranee o di rientrarvi attraverso le crepe e le
fenditure.
Prima ancora dell’atto del dipingere, doveva essere la fantasia
visionaria dei nostri progenitori a scorgere nelle morfologie di
questi ambienti minerali straordinariamente belli la curva
cervico-dorsale di un bisonte, l’avantreno di un cavallo o le corna
di un bovide.
Custodi di culti ancestrali legati forse ai misteri della morte e
della rinascita, le antiche grotte dovevano presentarsi, fin dagli
inizi, come i magici luoghi dei grandi incontri con gli esseri
mitici.
A questi primi appuntamenti col divino, si recavano probabilmente
individui particolari, in particolari momenti della loro storia o
della storia del loro gruppo.
Una traccia di queste discese magiche nelle profondità della terra
-e insieme dell’anima- è ancora lì, intatta nei millenni, in attesa
delle nostre domande.
Si tratta delle impronte di uomini e di animali ancora visibili sul
terreno di calpestio preistorico, orme di adulti ma anche, in molti
casi, di adolescenti.
Nella Grotta Chauvet, le uniche tracce umane finora rilevate sono
quelle di un bambino (o di una bambina) fra gli otto e i dieci anni.
È una testimonianza commovente.
Possiamo ancora seguire il suo percorso, con la torcia in mano per
farsi luce nel buio: una luce di fiamma che doveva accendere sulle
pareti il sortilegio di uno schermo di ombre semoventi e nella
fantasia lo scenario irreale di presenze arcane. I passi ci indicano
ancora la strada: dalla “Gallerie del Crosillones” coi suoi cavalli
incisi verso la “Salle di Crâne” dove un cranio d’orso era deposto
in modo intenzionale su una sorta di altare di pietra.
“La piste des empreintes humaines suit un passage obligé où la voûte
se relève sensiblement. L’efant y a régulièrment mouché sa torche
au-dessus de son chemin. Ces marques charbonneuses, datées de 26.000
ans, paraissent intentionnellment placées à rebours du sens du
cheminement, à la façon d’un balisage de retour ".
2
Era forse in queste sale interne, claustrofobiche e insieme
fascinose, che era necessario apprendere da un maestro
d’iniziazione, forse mascherato, i misteri della sessualità? Era in
questi luoghi sotterranei che un rito doveva incidere sul corpo
fisico per poter aver effetto anche sul corpo sociale?
Dalle grotte in cui erano entrati bambini, gli iniziati ne uscivano
maturi per la caccia e la procreazione, due momenti essenziali della
sopravvivenza, così terribilmente uniti dalla stessa angoscia di
morte e dallo stesso desiderio di rigenerazione. Nella sala più
interna della grotta Chauvet - la Sala del Fondo- proprio dinanzi a
una fitta schiera di leoni, su un pendente roccioso che si innalza a
1,20 m. dal suolo, uno strano essere ibrido e cornigero guarda di
scorcio la parete dipinta che ha dinanzi. Alcuni lo hanno chiamato
lo Stregone della Grotta. Colpisce il suo occhio dalle pupille tonde
come ocelli di insetto.
Il suo corpo, tozzo e ricurvo, è vagamente antropomorfo. La testa,
con le corna frontali, sembra quella di un bisonte.
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Stregone della Grotta
Grotta Chauvet
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" Cet
être occup tout l'espace disponible et fait face au grand panneau.
C'est lui que l'on voit en premier lorsque l'on arrive dans la salle.
En avant du corp a été peint une sorte de trianagle plein, pointe
vers le bas, à base fortement concave, soulignée d'un trait. Cet
exstraordinaire personnage ne manque pas d'évoquer les "sorciers"
des Trois- Frères dans l'Ariège et de Gabillou en Dordogne ".
3
In effetti, questa figura ibrida e gibbosa - troppo animalesca per
essere umana, troppo umana per essere animale- sospesa tra una
animalità non ancora oltrepassata e una umanità non ancora
dispiegata, sembra emergere dagli abissi più bui dell’anima,
prototipo di tutti quegli infiniti demoni destinati a dominare il
nostro immaginario per migliaia di anni, giungendo, attraverso una
fitta schiera di diavoli, spettri e coboldi, fino ai nostri incubi
moderni. Le più recenti ricerche hanno evidenziato la complessa
figurazione che orna i quattro lati del pendente. La documentazione
fotografica finora fornita non ci pone però in grado di coscere il
quadro preciso delle linee e delle sovrapposizioni; mancano ancora
gli elementi necessari per una ricostruzione attendibile dei segni e
questo rende particolarmente difficoltosa una analisi indiretta
fondata, per forza di cose, sul materiale visivo messo attualmente a
disposizione degli studi.
4
Alcuni dati appaiono però chiari. Per prima cosa, il carattere
fallico del pendente istoriato che viene a trovarsi proprio dinanzi
a una cavità della roccia la cui forma rimanda, in modo
inequivocabile, all’apertura vaginale. La casualità di questo
accostamento isomorfo deve aver contribuito a far assumere a questa
zona della grotta una valenza del tutto particolare. Alla destra
della cavità si trova un bisonte frontale mentre sulla sinistra una
teoria di leoni pare uscire dalla fenditura.
Se poi concentriamo l’attenzione sulle immagini del pendente -almeno
su quelle visibili all’entrata della sala- queste sembrano dare vita
a una sorta di enigmatica metamorfosi visiva, potremmo quasi dire a
una anamorfosi, osservando le linee da angolature diverse e sotto
diversi tagli di luce.
Il profilo dell’ibrido viene a formare, con la sua linea curva, la
gamba destra di una figura femminile “incompiuta” di cui sono
evidenti solo gli arti inferiori allungati sotto un grande triangolo
pubico, sfumato e fortemente naturalistico. Le forme opulente dei
glutei e delle cosce che vanno assottigliandosi verso le caviglie
presentano la medesima deformazione delle Veneri dei siti
gravettiani europei, dalla Spagna alla Francia, dalla Germania alla
Russia.
Delle statuette femminili a tutto tondo -che venivano probabilmente
conficcate nel terreno forse nelle zone perimetrali delle capanne-
questa immagine dipinta ha la stessa particolarità: i piedi sono
assenti.
È probabile che, in questa distorsione ottica, il corpo antropomorfo
dell’ibrido venga a delineare, proprio sotto il triangolo scuro, una
lunga mano dalle dita affusolate.
" Le bras est humain, prolongé par une main avec de longs doigts qui
pendent vers le bas ".
5
Se così effettivamente fosse, non potremmo non pensare qui al valore
magico-sacrale degli antropomorfi “dalle grandi mani” delle
incisioni rupestri successive o alla dimensione “manipolativa” di
certi riti di passaggio e di iniziazione alla maturità sessuale.
Ora, l’ambivalenza visiva di queste figure, distinte ma nello stesso
tempo mescolate, non si esaurisce in questa suggestiva fusione di
forme maschili e femminili, animalesche e umane, ma si sviluppa
verso la parte alta del pendente, in una nuova evoluzione di linee
che viene a formare una figura autonoma, forse dipinta
successivamente.
Certo non riusciamo a comprendere le ragioni di queste complesse
intersecazioni, ma non è irrilevante costatare che questa terza
figura, che allungandosi raccoglie e unifica sotto di sé la Venere e
l’ibrido, è quella di un leone.
Del resto, molti sono i felini rappresentati nella grande parete che
fronteggia il pendente: leoni in corsa, straordinariamente potenti,
carnivori, portatori di morte, ma destinati anche a popolare
l’immaginario di una cultura arcaica in cui la morte non segnava la
fine assoluta, ma la condizione prima di rigenerazione della vita.
Qui il circolo sembra chiudersi in un coerente significato.
Siamo dunque dinanzi al grande archetipo della iniziazione, alla
simbolica di un rito ancestrale -di circoncisione o di deflorazione-
in cui la sessualità si coniuga con la morte e la rinascita?
Certamente quanto detto sopra non consente deduzioni così azzardate,
ma non è forse casuale che, ancora nei Bestiari medioevali la
presenza del leone sia legata al tema della morte e alla rinascita.
In queste grandi visioni allegorico-simboliche del mondo, i
medioevali attribuivano al leone tre abitudini curiose: quella di
cancellare con la coda le sue orme, quella di dormire con gli occhi
aperti, ma soprattutto, quella paradossale di “venire alla
vita”morto.
Quando la leonessa partorisce i piccoli – si legge nel cosiddetto
Bestiario di Leningrado
6
- questi nascono morti; essa li veglia finché dopo tre giorni
sopraggiunge il padre, che alitando sul loro muso, li riporta in
vita. La chiave interpretativa di questa strana dinamica va, come è
noto, ricercata nella valenza cristologica di questi straordinari
codici medioevali..
Il leone è il simbolo della natura divina di Cristo rimasta sempre
intatta sebbene il suo corpo sia stato messo in croce. Come i
piccoli del leone dopo tre giorni dalla morte rinascono, così Cristo
–il leone spirituale- risorge riportato alla vita dal Padre dopo tre
giorni dalla crocifissione. Dunque, di nuovo il leone è accostato al
tema della morte e della rinascita. È indubbio che la distanza che
separa la spiritualità cristiana dalle prime ritualità delle grotte
è abissale.
Eppure non sembra del tutto fuori luogo valutare l’eventualità che
ci si trovi, anche in questo caso come già in altri, dinanzi alla
migrazione di un archetipo figurativo che da remote lontananze
temporali è potuto giungere, attraverso i secoli, fin alle soglie
della modernità caricandosi, in questo lungo percorso iconografico,
di valenze simboliche nuove, ma conservando una sua sostanziale
solidarietà col significato originario.
©
Gabriella Brusa-Zappellini
Note:
* IG.Brusa-Zappellini, Arte delle origini /origini dell’arte.
Preistoria delle immagini, Ed Archeopterix-Arcipelago, Milano
2002.
back
http://www.iftsarterupestre.too.it
; web.tiscali.it/arterupestre
1
Emmanuel Anati, Origini dell'arte e della concettualità, Jaca
Book, Milano1988.
back
2
Michel-Alain Garcia, Les empreintes et les traces humaines et
animales, in A.a.V.v., La Grotte Chauvet. L’art des origines,
sous la direction de Jean Clottes, Paris, Seuil 2001; pp. 36-37.
back
3
Chauvet J.M, Brunel-Deschamps E., Hillaire C., La Grotte Chauvet
à Vallon-Pont-d'Arc, Postface par J.Clottes, Paris, Seuil,
1995.
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4
A.a.V.v., La Grotte Chauvet. L’art des origines, op.cit.
back
5
Yanik Le Guillou, Les représentations humaines, in A.a. V.v.
La Grotte Chauvet..., op.cit.p.170.
back
6
Codice conservato presso la Biblioteca Pubblica di San Pietroburgo,
composto da novantun fogli di pergamena rigida (20 x 14,5 cm.),
scritto nei caratteri gotici della seconda metà del XII secolo - con
114 miniature, rilegato in 15 fascicoli.
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