Intervista a Marco TononDirettore del Museo di Scienze Naturali di BresciaPuò parlarci brevemente di come è nato il Museo di Scienze Naturali di Brescia?Il Museo di Scienze Naturali di Brescia si è sviluppato a partire dall’Ateneo di scienze, lettere ed arti, cioè dall’Accademia locale sorta nel 1802 a seguito della rivoluzione francese. Sono gli anni napoleonici. Questo luogo di cultura si richiama subito, fin nella denominazione, alle scienze, alle lettere e alle arti. Un richiamo che mette in evidenza, sulla scia dell’illuminismo, il prioritario interesse per le scienze della cultura del tempo, ma anche un obiettivo non ancora raggiunto a tutt’oggi: l’interazione tra la tre discipline, il riequilibrio tra le arti, le scienze e le lettere. Nell’ambito dell’Ateneo non solo si coltivano le scienze ma si inizia la raccolta dei materiali scientifici. Ci si occupa della Provincia di Brescia, anche se gli studi non si limitano a quest’area geografica. Persone insigni se ne interessano: le raccolte crescono di numero e d’importanza e vengono visitate da molti studiosi. Nel 1902 si pensa alla fondazione di un vero e proprio museo, aperto al pubblico. Sembra quasi un modo per celebrare i primi cent’anni dell’Ateneo. Nello stesso anno si apre lo zoo di Brescia. Questa novità implica la trasformazione delle funzioni del Castello, non più utilizzato a scopo militare ponendo così le premesse per il trasferimento del museo in quella sede. Quest’anno, quindi, festeggeremo il centenario della fondazione del Museo. Nel museo si fonderà una specola, della quale siamo fieri perché, aperta ufficialmente nel 1953, è la prima specola pubblica italiana, nata per fare scienza, ma soprattutto per la gente. Negli stessi anni l’Ateneo dona al Comune di Brescia le proprie collezioni. Negli anni Settanta viene destinato uno spazio verde per l’edificazione del museo di scienze e viene progettato il giardino contiguo. E’ una iniziativa che crea entusiasmo e viene vista in modo positivo. Si trattava infatti di uno dei primi musei costruiti ad hoc. Cosa rara in questo paese, in cui quasi sempre assistiamo al riuso di un edificio storico. E’ stata un’idea interessante: un edificio ad hoc, nuovo, di calcestruzzo e vetro, con il suo giardino, con un auditorium. Questo fatto dava al sottoscritto, venuto a Brescia dopo aver vinto un concorso, grandi speranze. Sarebbe stato l’ideale avere una struttura moderna, libera dai molti problemi e vincoli che pone il riuso di edifici storici. Ma la struttura architettonica si è rivelata debole. Non mi restava che una riflessione: chi mi restituirà la magia di un edificio storico quando l’edificio moderno è privo di qualità, sia tecnica che estetica, di armonia? Credo tuttavia che adesso sia arrivato un momento di svolta. Anni fa era stato messo in cantiere l’ampliamento di una nuova ala, destinata alla Biblioteca. Bene, questo progetto tra pochi mesi verrà finalmente realizzato. Il progetto va incontro all’esigenza di non creare un’aggiunta che complichi ulteriormente la percorribilità e la gestibilità di questa struttura, ma ne risolva, almeno in parte, proprio i problemi di percorso. Abbiamo puntato, con progettisti e colleghi, a livelli molto alti di innovazione, adeguati ai tempi. Risolvere i complessi problemi di una struttura non funzionale è stato estremamente stimolante e possiamo finalmente dire che i nostri sforzi sono stati coronati da successo. La verifica? Quando apriremo al pubblico. Si sono trovate nuove chiavi di lettura e quindi il modo per migliorarlo. Museo come sintesi di una delega collettiva nei confronti del tempo, del passato, del presente e del futuro. Trova valida questa definizione? E ancora. Negli anni immediatamente successivi alla guerra si abbandona l’immagine chiusa di museo. Si rifiuta l’idea di un museo come camera del tesoro, tempio e laboratorio unicamente riservato a una ricerca specialistica. Cosa ne pensa? Ci sono molte cose che dovremmo dire a questo proposito. Abbiamo avuto spesso bisogno di tagliare il cordone ombelicale che ci legava al passato, di fare cose nuove e migliori… Nasce e si sviluppa, ad esempio, l’idea dell’abbandono del museo tempio chiuso, di élite… E tante altre innovazioni. Ma, a volte, questi cambiamenti nascondono il bisogno di emanciparci dalle nostre paure, dalla nostra solitudine. È una necessità umana diffusa. Un luogo della memoria come il museo non ha bisogno di sentirsi superiore o diverso, ma ha bisogno di recuperare fiducia, sicurezza. Molto spesso ritroviamo nel passato contenuti e significati traditi o dimenticati per cui spesso si tratta di far bene piuttosto che di reinventare. Ritengo importante riflettere sul fatto che Aldobrandi abbia fondato nel 1500 un museo a Bologna. Non lo fa per passione o collezionismo lo fa perché i medici non conoscono i “semplici”, cioè le piante che si usano nella farmacopea e quindi non possono curare. Ecco allora che il museo nasce rispondendo a una precisa domanda, che è scientifica e didattica insieme. Qualcuno che fa cominciare la storia del museo al ‘700. Questa è una cosa assurda, priva di qualsiasi fondamento. La funzione dei musei nel passato non è quella in cui li abbiamo relegati noi oggi, giudicandoli privi di dimensione formativa. Sostenere che non erano didattici significa avere una informazione su di essi molto superficiale. In realtà, essi avevano finalità colte. E anche se parliamo dello “studiolo del principe” possiamo sostenere che in esso non si faceva banale collezionismo. Al contrario, lì erano presenti vari saperi intersecati, umanisticamente significanti. Il cabinet des merveilles è sempre stato molto di più che un luogo dove meravigliarsi e oggi noi sappiamo bene come si impari anche con l’emotività. Il museo-tempio, in fondo, non ha mai cessato di esistere, se è vero che perfino la Rivoluzione francese, che pure ha distrutto molto, ha comunque salvato qualcosa delle collezioni del re in ambienti che divennero indubbiamente aulici. Ma questo risponde semplicemente al fatto che, in ogni modo, il Museo aggiunge valore agli oggetti. Per parlare di come debba essere oggi il Museo è utile ricordare G.H. Rivière. Eco/Museo è un termine che implica un metodo di lavoro, strumenti cognitivi, è lo specchio di una società, del rapporto con il proprio io, delle proprie radici, della propria comunità. Questo specchio è magico, doppio. Mi ci rifletto, mi ci riconosco, oppure mi ritrovo per la prima volta Però mi presento al pubblico. Questa è la chiave dei musei. Come mai la gente va a vedere i musei quando è lontana, in viaggio e non a casa propria? Lì non conosci e inconsciamente vai a conoscere. Hai tempo libero, ti diverti, ma perché vai a vedere il Prado o il Louvre quando non conosci i Musei della tua città? Basta il museo di un paesino per trovare delle informazioni importanti. Museo come luogo della memoria in quanto tenta di far durare quel poco che rimane del passato. Quello che si salva è sempre un campione molto ridotto, ma quanta storia nasconde o può raccontare! Allora, cominciamo a considerare con l’umiltà dello scopritore questo campione e abbiamo già dato una chiave di lettura per il museo, abbiamo dato una chiave di rapporto con l’oggetto, con l’immagine. Curiosità e sorpresa, scoperta, spirito dell’indagine scientifica possono esser condivise. Non dobbiamo togliere al pubblico la possibilità di fare domande. Non dobbiamo obliterare la curiosità. Luogo della memoria, quindi. Ma tutto questo sforzo di conservare non deve perdere di vista l’obiettivo, che – non mi stanco mai di ribadirlo - è sempre e soltanto l’uomo. Spesso siamo presi dalla contemplazione dei nostri tesori e dimentichiamo che lavoriamo per l’uomo e allora il museo non serve a nulla. Questo fa la differenza tra collezionista e museo. Io direi che se la struttura si dimentica di coniugare ricerca, conservazione e comunicazione a fini sociali non ha più dignità di Museo. Rivière ha cominciato a percepire che per fare un museo locale ci si doveva spostare a livello storico, diacronico; doveva spostarsi attraverso il tempo, a più fasi. Anche lavorando ad un villaggio minerario ha avuto bisogno di pensare a cosa ci fosse prima della miniera. Ma non gli bastava, perché si è accorto che aveva bisogno anche dello scenario, dell’ambiente dove era avvenuta la storia. Si passa così dall’uomo alla storia, alla natura. All’interno di un’area dedicata alla Preistoria, come vede la gestione degli spazi in cui emerga l’Homo Sapiens come produttore di arte, con la riproduzione di pannelli ricostruttivi delle produzioni materiali dell’epoca?. E ancora, cosa pensa della possibilità di far rivivere la storia, le credenze,il vissuto dei primordi.? Non solo esposizione di reperti dunque, ma ricostruzione di un pensiero… È semplicemente doveroso e necessario. Allestendo anni fa una mostra sulla Preistoria, poi diventata permanente, avevo evidenziato nel percorso dei punti chiave, lo stesso ho fatto nell’ultimo allestimento. Rifuggo dall’idea di prendere un libro, farlo a fette e sbatterlo in vetrina. È altro quello che dobbiamo fare. Non è sufficiente lo specialista di una disciplina per fare i musei. Serve che questo partecipi a un gruppo di lavoro. Le competenze professionali che servono per fare un museo sono diverse da quelle delle discipline che vengono rappresentate. Nella mostra mammut ’89 le tappe evolutive dell’uomo furono semplificate ed evidenziate indicando il chopper come primo strumento, il fuoco come controllo di energia, la sepoltura dei morti come sviluppo di affetti e di credenze. Ma anche la tecnica Levallois come pensiero astratto, previsione del risultato, arte. Credo che ci sia molto di non compreso e quindi che anche le più fertili proposte di lettura vadano sempre considerate con grande cautela anche laddove le interpretazioni risultino simpatiche e suggestive. Più crediamo di conoscere la realtà, più questa si allontana. Non ci siamo messi sufficientemente nei panni dei nostri predecessori. Ci portiamo qualche arroganza, un’anima positivista caratterizzata dalla sicurezza. Unitamente al bagaglio di scientificità dobbiamo avere coscienza dei limiti e solo un atteggiamento di umiltà ci può portare alla scoperta, a intravedere un orizzonte innovativo. Un ruolo importante lo gioca l’archeologia sperimentale. Ho un’esperienza lontana di cui sono molto orgoglioso e lo posso dire perché non è mia. Nel primo museo che ho fatto ho avuto la fortuna di avere al mio fianco un ragazzo, che adesso fa il nostro mestiere, il quale aveva particolari doti artistiche (disegna, dipinge, fotografa, suona, mima). Sto parlando della mia esperienza nel Museo di Crocetta del Montello, un Museo di Storia Naturale. Nello specifico era sulla Preistoria della provincia di Treviso. Era un museo con un’impronta diversa rispetto a quelli che eravamo abituati a vedere perché per la prima volta abbiamo messo in vetrina degli strumenti. Abbiamo pensato a un museo per la gente. Abbiamo esposto la tipologia e la tecnologia dei materiali: delle selci, delle ceramiche, dei bronzi. Abbiamo messo a disposizione degli utenti delle chiavi di lettura, effettuando una sintesi, una collazione, una semplificazione di studi e materiali che si sarebbero potuti trovare soltanto in decine di libri. Su questa impostazione metodologica le attività di Antonio Paolillo diventavano importanti: “portava” il museo nella scuola. Ha effettuato drammatizzazioni, invece di giocare agli indiani, i bambini di Crocetta del Montello hanno giocato alla caccia al mammuth, rivivendo la vita e le attività dell’uomo del Paleolitico Superiore. Lui ha portato i bambini in un riparo sotto roccia, lui li ha fatti vestire con i tappeti di casa per simulare il mammuth. Questa esperienza porta decisamente nella direzione di una archeologia sperimentale: in questo caso il metodo scientifico è felicemente utilizzabile anche con i bambini. Non a caso oggi non uso il termine “allestire”, ma “mettere in scena”. Dietro questa affermazione si nasconde il modo di concepire l’organizzazione dello spazio, la progettazione dei volumi. Ci si muove sull’eco di due slogan: “usate i cinque sensi” e “vietato non toccare”. Come vede la possibile presenza, all’interno del museo,di una “serie di significati” che accompagnino l’oggetto? Il museo è qualcosa di più di un luogo dove si conservano opere e oggetti?Gli oggetti si usano per comunicare idee. Il Museo non è luogo di conservazione bensì luogo dove si esercitano, nella ricerca di un equilibrio dinamico, le tre funzioni di ricerca, conservazione e comunicazione. Ma ripeto, poiché l’obiettivo è l’uomo, gli oggetti devono essere decodificati e contestualizzati. Come pensa si possa valorizzare il museo a livello didattico per il visitatore?La soluzione viene se la si vuole trovare, ponendosi semplicemente il problema della didattica: un museo non può che essere didattico. Un museo che non lo sia non è un museo, perché non risponde alla definizione di museo, alla sua filosofia, al suo spirito, ecc. Lavorare didatticamente vuole dire lavorare per il proprio prossimo. Poi si impara il mestiere spigolando anche da altri mondi: utilissimo quello del teatro. Secondo lei è possibile fare un’esposizione di materiali a livelli differenti, a seconda del tipo di utenza?Il museo, in quanto tale, deve servire a tutti i tipi di pubblico, è sempre dietro l’angolo il pericolo dell’omogeneizzazione, dell’usare modelli, copiare (poi ci sono committenti che invece di farseli, i musei, li fanno fare alle ditte…, ma le ditte… è come far fare un giardino a un idraulico…). Il percorso base dovrebbe – per quanto sia difficile - andar bene per tutti; ma è anche possibile fare delle attività mirate, specializzare parti del percorso, ad esempio, per bambini o per anziani. A proposito degli anziani, ricordo che all’inizio degli anni Novanta volevamo cercare delle chiavi nuove, delle soluzioni nuove. Ho utilizzato il computer con gli anziani, che lo hanno usato perché sono state create le condizioni perché lo facessero. I nostri musei sono delle lezioni ex cathedra. Il malcapitato visitatore si deve sorbire la lezione che qualcuno gli ha messo in vetrina. In vetrina c’è un saputo, spesso saccente che ha messo il suo sapere senza preoccuparsi di comunicare veramente. A chi e a che cosa serve sapere che il tal quadro di Tiziano o Raffaello è stato dipinto nel tal giorno e nel tal anno, che l’influsso è di… che il numero di inventario è…? È l’avventura umana che conta, l’avventura nei confronti del sapere. In un museo bisogna avviare un processo ludico, bisogna stare bene, divertirsi, appassionarsi anche. Si viene in un museo quando si ha del tempo libero, ma ci si può venire anche per studiare e lavorare. Il processo da innescare è un processo di autoapprendimento: è l’utente che impara, non sono io che insegno. Su questa base di umiltà cambiamo il punto di vista. Il direttore di un museo deve quindi essere il consulente di un processo di apprendimento e, se è bravo, è un organizzatore di situazioni di auto apprendimento. È fondamentale che domini il principio di rispetto dell’altro. Se ci rivolgiamo agli anziani abbiamo il dovere di dare loro degli agganci con qualcosa che hanno visto e conoscono, perché quell’aggancio permette loro di fare strada, di maturare sulla via della conoscenza. Se un gruppo di visitatori gira per un museo e non apprezza, non “partecipa”, non guardiamolo con sufficienza. Studiamolo. Cerchiamo di capire cosa sta succedendo. Parlando ad esempio di archeologia, non possiamo più fare i lapidari, non possiamo più mettere i sarcofagi nel chiostro, esporre centinaia di tombe mute. Parliamo invece della serenità dei Romani di fronte alla morte. E’ indispensabile, perché l’abbiamo persa. Io credo che la serenità dei Romani di fronte alla morte serva all’uomo d’oggi. Parlando di formazione, secondo lei cosa possiamo fare per il nostro futuro? Considera utili degli stages all’interno di musei? Io combatto contro la mancanza di formazione specifica museologica nel nostro Paese. E’ una gravissima carenza anche nei confronti della quantità e qualità di patrimonio culturale che possediamo. La nostra formazione è bene o male quella dell’autodidatta, con tutti i limiti che ha questo aspetto. Ci siamo formati all’interno di musei e alla fine può essere un aspetto positivo quello di imparare facendo. C’è della bibliografia molto interessante e utile da consultare e studiare, tuttavia l’imparare facendo è una delle grandi occasioni. Quindi credo che – e in parte tendo anche ad usarlo nel corso del mio lavoro – il museo mi abbia insegnato molto e mi abbia fatto anche acquisire quegli strumenti di cui abbiamo parlato prima. Nella mia esperienza ho ritenuto necessario aver voluto fare musei legati a delle realtà territoriali, l’averli voluti fare con la gente, con qualcuno che voleva realizzare un museo e ha chiesto e cercato una competenza. Non siamo andati mai a fare cattedrali nel deserto, ma delle cose insieme a persone. Questo impegno richiede tempi e modalità differenti da quelle usuali. È necessario, anche partendo da una sola sala all’interno del museo, capirla, studiarla, valutarla, smontarla e rimontarla, anche virtualmente, disegnando, ragionando sull’obiettivo. Spesso faccio compilare delle schede agli studenti che vengono in visita. Insisto spesso con il disegno, perché, quando hai disegnato un oggetto lo conosci in modo diverso, lo vedi con occhi diversi e sotto varie angolature. E’ necessario coniugare scienza e umanesimo. Certe dicotomie sono state inventate ad arte, i confini sono creati per limitarti. Quindi è necessario, direi indispensabile, stare nei musei, partecipare, andare a scavare, vivere fino in fondo la realtà che ci interessa. Demoliamo il lavoro altrui per impadronircene. Facciamo dei test, degli esperimenti. Costruiamoci il museo, inventiamocelo, smontiamo quello di un altro. Rovesciamo il sistema cognitivo, educativo, formativo. Tutto questo dovreste fare voi! La scienza procede per errori ed è il superamento dell’errore che fa andare avanti e, quindi, rimettiamoci in discussione. Come vede il futuro delle realtà museali in Italia e in generale le possibilità di occupazione future? Quando io sono finito in un museo era davvero una scelta di pochi, adesso è perfino di moda. In qualunque settimanale o quotidiano c’è un articolo sui musei, sui quotidiani pure. C’è un boom annunciato e motivato ed è utile che studiamo il perché. Dovremo studiare anche questo nel Corso. Come pure la problematica di prima: perché se sono all’estero vado a vedere i musei e in casa mia no? Comprendere questo è fondamentale, è difficile trovarlo nei libri. Ma esiste un altro grande problema, che spiego portando un esempio. Io ho una grande soddisfazione, che è quella di dire: mi sono tirato su delle persone, sono arrivate a poter fare qualcosa nel nostro mondo, ma l’altra faccia della medaglia è che le ho perse - non perché penso che mi appartengano o che me ne dovessi appropriare, ma a volte si raggiungono dei livelli professionali e anche di intesa molto forte che è un peccato non assicurare al museo dove si sta operando. Sono convinto che sia positivo che se ne siano andate per il mondo, questo è sicuro, ma ho la certezza che la loro professionalità sarebbe stata utile e invece fanno un altro mestiere. Cito la mia esperienza legata a una persona che con me ha collaborato a vari livelli. Anche alla redazione di volumi. Ha lavorato molto, imparando. Adesso lavora come consulente editoriale in una casa editrice, sta bene, è un buon lavoro, guadagna, ma il problema è che questa persona era partita con una tesi sulla ceramica ed era andata a fare una Scuola di specializzazione al museo di Faenza. Ce ne sono di posti, ce ne saranno sempre di più, ce ne devono essere, perché il petrolio del nostro Paese sono i Beni culturali. Il posto di lavoro è un posto di lavoro sempre più da costruirsi, direi sempre più da libero professionista, sempre più il socio di cooperativa dovrebbe essere imprenditore di se stesso, come era l’artigiano. Per sviluppare e potenziare l’attività del Museo di Pordenone fu fatta nascere una cooperativa e anche Udine percorse questa via, anche se non penso che la cooperativa sia l’unica soluzione. Il Louvre (che è il Louvre) ha un gettito di entrate tra il 18 e il 22% dei suoi costi. Il museo è un’azienda a priori in passivo. Allora bisogna che chi vuole fare un museo ci metta del suo: una comunità di cittadini, un’amministrazione, qualcuno li deve tirare fuori i soldi. Ci sono molti musei delle aziende, anche questo è un segnale forte. È una straordinaria macchina per comunicare, quindi usiamola, usiamola bene. Visto che si parla di azienda museo, il problema è quello dei finanziamenti, dei soldi, che servono. Come vede il rapporto tra pubblico e privato. È possibile un accordo?. Il lavoro lo si inventa. Bisogna essere imprenditori di se stessi, anche come gruppo o come singoli, ma usando la propria professionalità e dando garanzie. Io cerco disperatamente l’autonomia di questo Istituto e di tutti quelli che ho diretto e costruito. Tuttavia le Amministrazioni temono di perdere potere dando autonomia, ma così facendo rinunciano a far gestire con efficienza, economia, efficacia. Sergi, luminare della paleoantropologia italiana ha inventato una classificazione dell’uomo fossile che ha fatto il giro del mondo, ma il cranio del Circeo era sotto il suo letto. Molti musei universitari sono così, non ha importanza la didattica, la cultura, il museo è chiuso ed è di proprietà del direttore. Io cerco sempre di più la condivisione di un progetto, perché mi interessa quello che l’altro sa, quello che l’altro fa. Purtroppo il gioco è con il potere. Spesso lo sponsor si diverte ad ascoltare le problematiche del Museo, però prima di impegnarsi chiede: “chi ti manda?” e il gioco passa a un tavolo che non è più quello della diffusione della cultura. Perché alcuni settori sono privilegiati rispetto ad altri? Chi può partecipare a un’impresa di un museo di scienze? Ci sono aziende, istituti, scuole, persone. Molti Istituti universitari vogliono lavorare con noi. Ma dobbiamo dare sicurezza e per fare ciò bisogna evitare i laccioli di un’amministrazione che è nata e sviluppa le sue tecniche su problematiche molto diverse da quelle di un museo, per cui non è funzionale, non è in sintonia. Il modello di efficienza di un’amministrazione fatalmente non ha portato a buoni risultati. Il controllo deve essere assoluto, totale. La trasparenza, la regolarità delle pratiche di amministrazione, questo è senza dubbio fondamentale, ma il problema non è questo. Quindi, ecco sorgere la struttura autonoma, la fondazione, che non ha i problemi della macchina burocratica amministrativa dell’Ente Locale. Brescia ha delle frange di rigidità, ma anche di apertura, modernità, ecc. Il motivo per cui il Civico Museo di Scienze di Brescia è in città la cenerentola lo dobbiamo chiedere al Comune. Un’analisi dei bisogni dell’uomo d’oggi porterebbe immediatamente a un maggiore impegno per riequilibrare la cosa. Cosa ne pensa della comparatistica etnografica e dei musei etnografici locali? Fino a che punto ci aiutano a comprendere le culture preistoriche? Il metodo della comparazione è fondamentale e viene usato molto spesso per definire specie biologiche, fossili, rocce o pietre. È il metodo principe e si basa su confronti ed approssimazioni successive per arrivare alla determinazione di un oggetto. La comparazione etnografica ha avuto un grande successo in una certa fase dei lavori delle scienze preistoriche. Poi sono iniziati alti e bassi, abbandoni, ritorni e mode. In uno scavo preistorico viene trovato un oggetto che rappresenta un animale con alcuni fori, altri trovano un oggetto simile con gli stessi fori presso gli esquimesi attuali e si arriva presto alla conclusione che l’oggetto serviva alla stessa, identica cosa. In realtà, abbiamo molti fenomeni di convergenza. Spesso si tratta di convergenze formali e non funzionali, fenomeni simili per casualità che non sempre legittimano l’attribuzione dello stesso significato allo stesso oggetto. Bisogna usare la comparazione etnografica come uno stimolo alla ricerca. Questi studi sono e rimangono solo ipotesi di lavoro e non risultati. È un errore che viene fatto molto spesso. Sappiamo benissimo che cosa è un’ipotesi, ma, parlandone con altri, finiamo per usare le ipotesi come delle realtà e delle verità Bisogna sempre mantenere un atteggiamento vigile e critico, e usare l’intelligenza. Individuare possibili filoni interpretativi piuttosto che dare risposte. Nella ricostruzione di un passato fatta con le scarse tessere di un mosaico che non c’è più, è follia pretendere una ricostruzione che metta tutto al posto giusto e sia in grado di restituirci un’immagine risolta, completa e perfettamente a fuoco. Noi abbiamo usato fino a ieri, per fortuna fino a ieri, la scienza semplificante. Il modello della fisica classica, intendo, che pensava di aver risolto quasi tutti i problemi cognitivi del mondo con poche e semplici leggi: tutto ciò che non vi rientrava era considerato eccezione, anomalia. Oggi abbiamo la convinzione che l’anomalia fa scienza quanto la normalità, e forse talvolta di più. Non possiamo perdere di vista l’eccezione. Il discorso sulla complessità del reale non può più essere ignorato, purtroppo fatica a entrare nella quotidianità di molti saperi. Per capire la diversità occorre saper cambiare il punto di vista. Ci siamo resi conto ormai che la scienza ufficiale non riesce a descrivere, a calcolare, a riprodurre il mistero della natura. Noi siamo andati sulla luna, ma non conosciamo ancora tutto. Non sappiamo descrivere, prevedere il moto di una foglia che cade; il battito di ali di una farfalla nel Mato Grosso può generare un uragano nelle isole giapponesi. Un’operazione umana è sempre altamente complessa, quindi le interpretazioni sono molte. Va bene la comparazione, va bene il parallelo etnografico, ma occorre tenere presente che spesso ci sono fenomeni simili che non si possono e non si devono sovrapporre. Talvolta è proprio una di queste comparazioni ad accendere una lampadina e a far intuire un qualcosa che poi va studiato e non accettato come una semplice illuminazione. Proprio qui sta la sfida e la difficoltà estrema. Un esempio è Schliemann, che trova Troia: non era Troia, Troia non è mai esistita. Ne parla Omero, sì, ma anche Omero non è mai esistito. Però ci parla dell’età del bronzo, di cui dice alcune cose che sono chiavi di interpretazione, e allora non è più poesia ma forse è storia. Non possiamo ancora sapere fino a che punto lo è, il cammino è appena cominciato. Non possiamo ancora trarre conclusioni, ma sappiamo che se fino a ieri la leggenda e la favola non facevano parte dei nostri sistemi cognitivi, oggi ne fanno parte a pieno diritto, pur con molta cautela. Ho studiato il tema dell’amazzonomachia perché ho avuto la fortuna di esporre un affresco romano del I secolo, un capolavoro assoluto. Ho cominciato a studiare questo soggetto e mi si sono rivelate una serie di chiavi di lettura, ho fatto un passo avanti forse troppo ardito nella interpretazione. Proprio perché non addetto strettamente ai lavori di quel sapere, a un certo momento ho intuito qualcosa e quasi per caso mi sono trovato nel filone di altri studi, di altre ricerche che stanno arrivando alla stessa conclusione. Il mito si ricollega ad una cultura pre-patriarcale, è qualcosa che svela interpretazioni che oggi vengono confermate: la dea Madre non è più una entità lontana, passata, invisibile, ma è dentro a tutti i miti ed è ancora coglibile oggi e lo sarà forse di più in futuro. Queste sono le avventure dello spirito, e secondo me vanno musealizzate, ovvero condivise. Per fortuna molto è cambiato negli ultimi dieci anni: quando la Gimbutas ha cominciato a scrivere, le sue idee sono state rifiutate da molta parte del mondo accademico, ma ha aperto una strada che poi è stata condivisa. Penso a Louis Godart, che ha scavato a Creta, che legge l’Iliade non solo come la storia di eroi e di battaglie, ma dandone una lettura al femminile: le protagoniste diventano allora le figure femminili, che determinano il fato. L’idea del fato ci ricollega subito ad altro e la cosa diventa interessante, non tanto per la novità dell’interpretazione o per il coraggio di una determinata affermazione, ma perché questi studi sviluppano temi che appartengono al passato dell’uomo e che fatalmente ritroviamo nel presente. Come vede l’utilizzo di calchi o di tecnologie avanzate all’interno di un museo, nel suo o in un altro Museo di scienze naturali? È consigliato l’abuso. È un tema che abbiamo a lungo trattato, anche attraverso un corso-laboratorio 3R: recupero, restauro, riproduzione. Il calco si usa molto per la paleontologia dei vertebrati, ma è un sistema che va bene per tutto. Fino a un paio di secoli fa il calco era un dono da principi, se lo scambiavano i regnanti, magari per la riproduzione di una statua greca. Calchi e riproduzioni sono stati molto usati per gli oggetti naturalistici, nei Musei e nei parchi tematici. Va bene riprodurre gli oggetti, va bene riprodurre le macchine e gli strumenti, ma non riprodurli per esporli, riprodurli per usarli. Facciamo costruire ai ragazzi gli strumenti (in fondo anche Galileo si è fatto il suo telescopio). Per l’arsenale di Venezia, pensavo di far fare ai ragazzi una corda. Un ragazzo viene dagli Stati Uniti a visitare Venezia, fa uno stage e fa un pezzo di corda, proprio come lo facevano alle corderie dell’arsenale nel 1500. Tornerà a casa ricco, porterà a casa il pezzetto di corda fatto da lui, ma avrà anche qualcosa d’altro dentro, di molto più importante. Ho parlato di un pezzo di corda, figuriamoci se gli facciamo fare una barca! Quindi ben vengano laboratori e sperimentazione: qualcuno comincia ad esserci anche da noi, con molti difetti e molti errori, ma è bene che ci sia. Un esempio è l’esperienza di Ausilio Priuli a Boario Terme con l’Archeo-park. Pur con possibili difetti è sulla linea di esperimenti interessanti: si può migliorare, si può correggere il tiro, ma è una linea buona, così come lo sono il calco e la riproduzione. Ritengo però un errore far vedere un calco in vetrina, perché è vero che talvolta il calco costa qualche milione e che è comunque prezioso, però è anche vero che la vetrina non si giustifica se non per estreme necessità di protezione. Spesso se ne è abusato e spesso non è così salvifica rispetto all’oggetto come si crede comunemente. Il calco va lasciato toccare…Quando vedo un ragazzino accarezzare una statua greca, capisco di aver centrato un obiettivo di fondamentale importanza. Ritorniamo al Museo dei cinque sensi di cui parlava prima... Il calco e la riproduzione sono strumenti museologicamente corretti, molto importanti. Noi abbiamo spesso utilizzato gli scheletri di un vertebrato fossile, montati. Oggi non ci sto più! Ci sono delle condizioni necessarie da tenere presenti: l’esposizione non deve danneggiare il reperto e gli interventi di restauro devono essere reversibili. Nessuno mi può convincere che il montaggio di uno scheletro non danneggi il reperto. Potrei fare degli esempi estremi: in un museo è stato montato uno scheletro di balena, che è un grande oggetto, sia per le sue dimensioni che per il suo aspetto fantastico. Certo, lo scheletro di una balena è di grande interesse, ma non mi si venga a dire che è un intervento reversibile. Perché se ho bisogno di studiare la dodicesima vertebra dorsale, chi me la tira giù? È smontabile ma occorre molto tempo, una squadra di operai, bisogna stabilire i tempi, magari si rompe, cade qualcosa… È’ quindi velleitario affermare che è un intervento reversibile. Nel laboratorio di Possagno (Tv) furono riprodotti un elefante e un ippopotamo che erano esposti montati al Museo di Paleontologia dell’Università di Padova. Li abbiamo in parte smontati, restaurati e poi riprodotti. Un’operazione del genere è facile solo a parole. Gli scheletri di materiale fossile sono dei reperti importanti scientificamente, vanno tenuti a disposizione dello specialista, conservati nel miglior modo possibile da ogni punto di vista. L’esposizione di uno scheletro va benissimo: facciamo un calco, lo montiamo senza ferri e senza rompere niente, con viti passanti, col velcro, con incastri, in modo che si possa facilmente staccare e riattaccare. Possiamo anche farne due: uno montato e uno ai suoi piedi, sciolto in modo da poter prendere in mano i pezzi. La reversibilità, l’integrità, la conservazione ne risultano garantite e la didattica altrettanto. Non sacrifico o l’una o l’altra. Ho soluzioni che funzionano. Oggi la tecnologia ha fatto progressi ulteriori: nemmeno fare un calco è un’operazione reversibile e danneggia il reperto. Per questo oggi si può utilizzare preferibilmente la scansione in 3D. Nascono metodi nuovi e c’è grande impegno tecnologico, non solo perché abbiamo la tecnologia, ma perché sappiamo a cosa serve e dove vogliamo arrivare. Ben vengano quindi la produzione, le copie, i calchi. Il professor Giacobini, antropologo a Torino, ha applicato magistralmente alcune tecniche già sperimentate in Francia e ha fatto calchi di sepolture che sono decisamente straordinari, veri capolavori. Noi abbiamo la fortuna di averne uno qui. Allora io dico: facciamone cento, duecento. È chiaro che costano, ma è in gioco la diffusione della cultura. Il calco è un oggetto magico, straordinario. Si impara anche con l’emotività di fronte ad una sepoltura, ed è molto diverso dal guardare la foto su un libro. Oggi, per fortuna, si fanno foto a grandezza naturale piuttosto convenienti grazie all’utilizzo del digitale: ricordiamoci di usarle. Attraverso la tecnologia, le immagini, la comunicazione, si può reinventare qualsiasi museo, mettendo a posto prima di tutto le cose che funzionano. Ogni museo si può usare, anche il peggiore: basta fare lo sforzo di rinnovarlo e migliorarlo. A questo proposito, se Lei dovesse disporre di fondi consistenti da utilizzare per il museo, quali sono le modifiche che vorrebbe fare subito e quali sono invece le cose che non cambierebbe? Cambierei assolutamente tutto. Il museo dopo cinque anni è vecchio e va cambiato. I ritmi della sensibilità e della cultura, dell’immagine, i sistemi cognitivi così come i contenuti delle discipline, dopo cinque anni sono vecchi. Personalmente credo di non avere limite di spesa. Per quanto fantastica possa essere la cifra, credo che i miei sogni e le mie utopie siano sufficienti ad investirla. La direzione è già dichiarata: darei molto più spazio all’ambiente, al volume, alla scenografia. Abbiamo passato anni e interi congressi a discutere sull’interattivo e il multimediale. Ho fatto il primo tentativo di informatizzazione di un museo italiano a Pordenone, lontano da Milano. È stata una bella esperienza realizzata in un ambiente povero, lontano dai grandi centri di innovazione tecnologica, ha significato acquisire una competenza ed è stata anche l’occasione per imparare qualcosa facendo. Questo ha fatto sì che io partecipassi a un congresso e ne uscissi presidente di un comitato internazionale per le innovazioni tecnologiche nei musei. Ero il direttore, ma mi ero sporcato le mani, avevo la visione e anche la prassi. E allora, voi mi chiedete cosa farei? Ancora prima di sapere cosa fosse Internet ho fatto nascere la prima rete di musei in Italia. È’ funzionata per qualche mese. Ho riempito il museo di computers, ho testato le strategie perché potessero essere utilizzate anche dal pubblico degli anziani. Ho capito che il computer sarebbe stato sempre più invasivo, nella nostra vita, nella nostra casa, in tutto quello che facciamo (non parliamo dell’automobile). Ho però capito anche che dopo la prima ubriacatura, per fortuna comincia a sparire. Io ne sono un fruitore entusiasta e propositivo, ma per fortuna comincia a sparire. C’è, ma oggi fa quello che deve fare e risponde a segnali che non sono solo la tastiera, il mouse e il monitor. Cosa significa interattivo? L’interruttore della luce è interattivo: entro in una stanza, è buio e accendo la luce. L’interruttore fa succedere delle cose, genera la luce, fa una magia, che ormai per noi è ovvia, ma è sempre una magia... accendere la luce in una stanza buia è come avere il coraggio di guardare un’alba, un tramonto, una costellazione, una goccia d’acqua su un trifoglio. Ciò migliora la qualità della vita, e non è solo una osservazione da naturalista o un fenomeno fisico. Interattiva è la mostra, interattiva è l’aula del museo, ma è anche interattivo il mio stato d’animo nei confronti di una sala. Ritengo che ora che abbiamo capito cosa sono i computers, la cosa da fare sia farli sparire, farli lavorare nell’ombra, dietro le quinte. Ritornando alla domanda: nel mio cassetto ci sono sogni, desideri, e le utopie sono molte. Adesso sto lavorando di nuovo sulla tecnologia, sulla scansione a 3D. La realtà virtuale, appena se ne è iniziato a parlare, ha preso subito piede: è passata attraverso il computer, i giochi, gli occhiali etc. A me non è mai sembrato di essere in un altro mondo, non mi è mai capitato di pensare: “mi sto muovendo davvero nel tal ambiente”. Ho sempre pensato: “sto spostando il mouse, sto spostando il punto di vista”. È la metafora giornalistica che ci condiziona, abbiamo di nuovo confuso la metafora con l’idea vera. In questo museo si impara anche con l’emotività. Cerco sensazioni, non per edonismo, ma per una domanda di senso. È importante nel nostro (mi auguro condiviso) mestiere, sapere perché e per chi si lavora. È’ importante porsi queste domande. E chiedersi: chi oggi è veramente disposto a investire per un uomo critico e responsabile? E allora ecco il museo non neutrale, eccolo obbligato a schierarsi. Cosa mettete in un museo? E perché e come? Io sogno il museo dell’uomo e ho già pronto il progetto, il progetto di uno strumento cognitivo dell’uomo su di sé. Non ho in mente un calderone che amalgami tutto, ma sono consapevole che la goccia d’acqua, così come il graffito, sono occasioni per conoscere se stessi. E allora ne vale la pena. Per questo è innovativo quello che stiamo facendo nel nostro Corso di Formazione: andiamo in questa direzione, capire profondamente le cose, conoscere, ognuno con le sue aspirazioni, i suoi sogni e i desideri… Torniamo a un punto fondamentale. È più importante oggi - di fronte alla ridondanza delle informazioni, alla quantità enorme di sapere che l’umanità produce - avere un certo numero di conoscenze o avere un metodo per conoscere? E’ una domanda retorica. Ha senso oggi la parola “studiare” per i ragazzi? Insegniamo loro a guardare le cose. Io sono contento quando un giovane esce di qui avendo visto qualcosa che non aveva visto prima, sono soddisfatto se ho condiviso con lui almeno qualche piccola strategia sul saper vedere, sul saper udire. Il metodo per conoscere e per conoscersi è prioritario ed è dentro di noi: ogni individuo critico e responsabile ha dentro questi strumenti. Tutto il resto viene da sé. Se questo è il nostro progetto di lavoro, allora sappiamo per chi e perché, e il come viene da solo. Come vede la possibilità di aprire nuovi spazi all’interno del museo? Anche con giochi o attività interattive per bambini accompagnati dai genitori, allo scopo di farli manipolare, ricostruire, disegnare? Quali strumenti sarebbero necessari per attuare questo progetto e come vede l’intervento di personale anziano, di pensionati che hanno concluso il loro ciclo lavorativo, ma che hanno ancora energie da dare per un impegno di questo tipo? A proposito dell’entrata di privati o di altri nei musei, in Italia c’è la legge Ronchey che stabilisce l’appalto per fare dei “bookshop” in un certo numero di musei. Questa legge è funesta, forse anche illegale e anticostituzionale, ma soprattutto illegittima nei confronti dell’istituzione culturale. Perché per definizione accettata il museo è una struttura che non ha fini di lucro. Nel momento in cui ho un’attività squisitamente museale che ha degli incassi, non posso concepire che questa attività venga svolta per lucro. È demenziale espropriare lo stato, la cultura, il museo, di un’entrata, dandola ad una ditta esterna, privata, che ha solo scopo di lucro. Il danno oltre la beffa, è che la prima gara nazionale su cinque grandi musei romani per fare il servizio di bookshop l’ha vinta la Reunion des Museés Nationaux, non una ditta privata, dunque, ma un organismo burocratico dello Stato, e per di più di un altro Stato. C’è ancora di peggio: la maggior parte di quanto viene venduto al Louvre è fatto in Italia. Capite cosa significa? C’è una grande “confusione”. Parlando delle attività nel museo. Vanno benissimo il laboratorio, la didattica etc. Ma se si tratta di una ludoteca questo termine non mi piace. In Italia funziona in modo particolare anche il volontariato. Io sono stato accompagnato alla visita di una riserva indiana degli Hurons nello Stato del Quebec da una volontaria del museo delle civiltà. Non era un professore di antropologia, era una volontaria del museo. Io volevo solo essere introdotto e l’aiuto della guida mi ha fatto risparmiare molto tempo e mi ha permesso di incontrare le persone giuste. Era semplicemente un’infermiera dell’ospedale che dedica il suo tempo libero a fare la guida nei musei. Non faceva parte di una cooperativa, non era né un laureato, né uno studente, era semplicemente un’infermiera. Da noi non avrebbe nessun tipo di riconoscimento ufficiale, mentre per il Quebec questo è normale. Allora sponsor o non sponsor, volontario o non volontario, anziani o non anziani, dipende da come le cose vengono fatte e dal perché si fanno. Cito ancora l’esperienza del Friuli. In Valcellina gli insegnanti e i bambini in “laboratorio” hanno rifatto la calce, insieme agli anziani: hanno cucinato i sassi, li hanno scelti, hanno restaurato la fornace abbandonata. Questa è per me una operazione museologica, questa è cultura e umanità. Quello a cui penso per il vostro Corso è una sala dedicata alla Valcamonica, inserita qui, nel Museo di Scienze di Brescia. Gradirei una vostra collaborazione. Scrivete cinque parole che individuino un tema, un soggetto, invece di andare a raccontare la definizione di museo, cosa che io impongo sempre ai miei studenti e che annoia moltissimo. Il sistema principe è questo: avere il coraggio di rinunciare alle troppe parole, uscire dai binari, scegliere poche parole che definiscono un museo e lavorare un po’ su questo. Per il vostro caso direi: facciamo un museo così, e basta. Ci lavorate due o tre settimane e abbiamo iniziato il cammino. Edgar Morin riguardo al metodo cita A. Machado:caminante no hay camino se hace camino al andar A cura di Valentina Biraghi e di Silvana Damiani
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