Editoriale
Presentare questa iniziativa editoriale, che vede la luce nell’ambito del Corso IFTS per la formazione di “esperti nella conservazione e gestione del patrimonio preistorico e dell’arte rupestre”, significa innanzitutto soffermarsi su alcune questioni di fondo che ne hanno motivato la nascita. Pensiamo che la scelta di dare, in questo primo numero di Archeopterix, largo spazio a interviste con figure rilevanti del mondo della cultura -e non solo-, sia in linea con la filosofia che anima questo Corso: lavorare nell’ottica di una stretta interconnessione tra l’aspetto della formazione culturale e quello dello sviluppo di competenze professionali che sappiano dare concreti strumenti di inserimento nella realtà lavorativa. Per fare questo, è necessario cominciare a muovere i primi passi, tentando di districare il bandolo di una professione fortemente sfaccettata e, per certi versi, ancora da individuare nelle sue differenti peculiarità e potenzialità. Di qui la volontà di rivolgerci a chi di questa professione ha fatto una scelta di vita indirizzata verso la ricerca, la novità, la spinta innovativa; a chi insomma ha cercato di essere un “apripista”. Inaugurare questo numero con un’intervista a Emmanuel Anati, che il professore ci ha rilasciato a conclusione di una settimana di studi svoltasi lo scorso maggio presso il Centro Camuno, ci sembra il miglior modo per iniziare un confronto franco e aperto sulle concrete possibilità professionali di chi si occupa di valorizzazione dei beni preistorici. Se oggi infatti lo studio sistematico dell’arte rupestre è annoverato fra i settori dell’archeologia e, più in generale, delle scienze umane, è anche grazie al fondamentale apporto dei suoi studi iniziati cinquanta anni or sono. Vi sono inoltre contributi nell’ambito della museologia, con le interviste a Marco Tonon, direttore del Museo Civico di Scienze Naturali di Brescia e a Lanfredo Castelletti, direttore dei Civici Musei di Como; nell’ambito della ricerca tecnologica applicata ai beni culturali, con l’intervista a Maurizio Forte ; nell’ambito della didattica, con un articolo di Anna Dal Passo e Silvana Damiani ed un’intervista a Marco Di Lernia. Accanto a queste interviste, che costituiscono la parte preponderante dei materiali del numero, ospitiamo un contributo di Luisa Bonesio, docente di Estetica presso l’Università degli Studi di Pavia -e che ha tenuto nel primo semestre del nostro Corso il modulo di Geofilosofia-, e un articolo del prof. Umberto Sansoni. Essere formati come esperti nella valorizzazione dei beni preistorici è innanzitutto una sfida al superamento degli steccati che ancora dividono le scienze umane fra loro e, soprattutto, queste ultime dalle scienze naturali. Il bene archeologico esige in sé la necessità di un approccio multidisciplinare che tenti di restituire la complessità della dimensione materiale, antropologica e simbolica. E’ fuor di dubbio che questo tipo di riflessione, qui soltanto brevemente sfiorata, sia oggi largamente condivisa dal mondo della ricerca; una visione “sistemica” è anzi indicata come la carta vincente per il mondo delle professioni. Quest’istanza viene sottolineata, tra gli altri, sia da Maurizio Forte che da Lanfredo Castelletti, in particolare riguardo alla divaricazione curricolare tra la formazione dell’archeologo e quella dell’antropologo culturale. Il risultato è che si può diventare esperti nella classificazione tipologica senza maturare capacità interpretative oppure, viceversa, accentuare la dimensione del simbolico trascurando la materialità del reperto. Non c’è dubbio che l’università italiana, pur attraversando una fase di trasformazione, sia “resistente” a un’impostazione di attiva messa in comunicazione tra le scienze umane (soprattutto quelle di recente formazione) e la tradizionale formazione storico-letteraria. Questa inadeguatezza formativa naturalmente si riflette sul versante dell’inserimento lavorativo: oggi i percorsi universitari hanno ancora una scarsa capacità professionalizzante. A questo riguardo Emmanuel Anati sottolinea l’importanza del fare pratica, di concepire l’insegnamento e l’apprendimento come un laboratorio interattivo e, soprattutto, di trasmettere una metodologia di ricerca che sappia fornire quegli strumenti indispensabili per sviluppare un pensiero creativo. Anche l’ambito della museologia, che potrebbe aprirsi in prospettiva come un’affascinante campo professionale, risente della mancanza di una formazione specifica, come viene ribadito da Marco Tonon. La questione dell’interpretazione si lega, nel processo di musealizzazione, a quello della decodifica e della contestualizzazione del bene culturale: diventa quindi centrale avere gli strumenti per tentare la strada rischiosa e accidentata della ricostruzione di significato del reperto. Al di qua di questo tentativo, il bene archeologico rimane a noi sconosciuto, inerte, puro significante indecifrabile. E dunque oggetto di una superficiale attenzione da parte del visitatore. Allestire, “mettere in scena” può allora diventare uno stimolo all’interpretazione, pur con la coscienza del fatto che il significato, in particolare in ambito artistico, sia per sua natura fuggevole, opaco. Ci piace dunque pensare alla formazione di un curatore di museo come ad un percorso che dia gli strumenti per “musealizzare le avventure dello spirito” e fare di un’esposizione, un’occasione di stupore, di fantasticazione. E’ infatti attraverso un forte coinvolgimento emotivo che lo spettatore fissa ciò che vede nel ricordo e rende duraturo e fertile l’apprendimento, come ha avuto modo di sostenete Bruno Bettelheim in un suo intervento sul museo.
Ci sembra infine importante rilevare come tutti i contributi che qui presentiamo pongano al centro della riflessione la ricaduta sociale della ricerca e del “fare cultura”. Pur nelle grandi difficoltà che si aprono a chi decida di intraprendere la strada della valorizzazione dei beni preistorici, vorremmo trasmettere questa vocazione con il nostro lavoro: comunicare a quante più persone possibile la gioia della scoperta di un patrimonio che accomuna tutta l’umanità per migliaia di anni di storia condivisa. Pensiamo questo possa essere un piccolo antidoto alla voglia di costruire nuovi muri, alla fobia dell’Altro perché diverso, alla guerra come baluardo della propria piccola identità.
Diego Abenante
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