Gabriella Brusa-Zappellini L'ALBA DEL MITO Radici preistoriche dell’immaginario antico
Arcipelago Edizioni - Archeopterix Milano 2003 INTRODUZIONE Un antico mito australiano racconta che, agli inizi dei tempi, quando il serpente Ungud, signore del sottosuolo, e il dio del cielo Walanganda, padrone delle acque dolci, decisero di dare inizio alla creazione, lo fecero di notte in uno stato di sogno. Cominciarono dunque l'opera sognando le loro creature In tal modo, scendeva sulla terra una straordinaria energia. Walanganda faceva piovere continuamente dal cielo i propri sogni sotto forma di immagini; ne irrorava le superfici delle rocce con i colori rosso, bianco e nero. Così si formarono, in quella lontana alba onirica della coscienza, le prime figure dipinte che sono i padri e le madri di tutto il vivente: grandi centri animati da cui s'irradia nel mondo un'immensa energia. Anche nella Terra del Fuoco, in una zona assai lontana dall'Australia, i cacciatori Ona raccontano un mito per certi aspetti analogo. Alle origini dei tempi, uno spirito generatore molto potente, l’essere-grigio dalle grandi corna chiamato Hachai, era balzato fuori delle rocce. E’ a lui che dobbiamo la creazione degli animali. La stessa fantasia ritorna, pur in una forma diversa, nelle storie dei cacciatori di pantere dell'alta valle del Chrotta. "Un cacciatore ci disse - scrive Frobenius nella sua Storia della civiltà africana - che la contrada era famigerata per la presenza di molte pantere, e che le pantere vivevano nel Gebel Wodiachia. Solo più tardi capimmo che egli aveva voluto dire che, secondo gli indigeni o gli altri cacciatori, queste bestie escono proprio dalla rupe appena sorge il sole. Dopo queste notizie, osservai più da vicino le rupi e, ricordando la conversazione, la mattina seguente, al levar del sole, volsi lo sguardo alla parete rocciosa, sul sepolcreto; vidi che proprio la punta più alta era immersa in un fiotto di luce e nella brusca illuminazione mostrava molto chiaramente linee profondamente incise. Trovata la traccia, la parete fu esplorata senza indugio con la massima attenzione, e ciò che alla prima era confuso lo ripassammo col gesso. Sulla punta dentata, illuminata per prima dal sole del mattino, erano rappresentati: un leone e, dall'alto verso il basso, da una parte una serie di cinque elefanti, dall'altra un enorme elefante, una giraffa, altri elefanti, un bufalo, un'antilope". Delle antiche incisioni, divenute col tempo sempre meno visibili, s'era, dunque, persa la memoria, ma la gente del luogo aveva conservato le credenze magiche sorte intorno alle rocce. Lo stesso potere creativo delle immagini rupestri è presente in un mito eschimese. Il racconto, tramandato dalle culture sciamaniche delle zone artiche, narra della "vecchia delle foche". Seduta nella sua dimora buia, oltre le terre dei vivi e dei morti, questa strega tiene sempre accesa dinanzi a sé una lampada di pietra che irraggia le pareti con bagliori di fuoco. In questo modo vengono a esistere gli animali di cui ci nutriamo. Ora, queste diverse fantasie, pur lontane nello spazio e nel tempo, sembrano rimandare tutte a una pratica comune alle culture primitive, quella di incidere e colorare le rocce e, prima ancora, di dipingere le pareti delle caverne sotterranee. Nelle profondità cristalline delle grotte, branchi di cavalli selvaggi e di renne, di rinoceronti lanosi e di bisonti lanosi ci balzano ancora oggi incontro dalle fenditure per poi perdersi nelle bocche d'ombra della terra. Si tratta di apparizioni straordinarie, pulsanti di vita, immerse nella luce di fiamma, che suscitano in chi le guarda, con il loro gioco di riflessi semoventi, un impatto illusionistico sconvolgente. Ma se ci interroghiamo sulle ragioni che hanno spinto i nostri antenati a insinuarsi nelle viscere della terra per dipingere queste immagini non troviamo risposte convincenti. Eppure capire il loro significato, da un certo punto di vista, significherebbe comprendere noi stessi e il senso del nostro stesso esistere. Noi siamo stati cacciatori-raccoglitori per almeno quaranta mila anni. Un periodo lunghissimo della nostra storia di cui ci restano le straordinarie testimonianze delle grotte istoriate. Possiamo avvicinare questi luoghi magici, dalle stanze velate d'argilla e di sottili cristalli di calcite, ai nostri templi o ai nostri santuari. Probabilmente dovevano essere punti d'incontro con gli spiriti ancestrali o forse centri rituali di generazione e rigenerazione della vita; certamente erano “camere delle meraviglie” in cui insieme alle prime forme d'arte si sono plasmate anche le matrici della nostra creatività e della nostra spiritualità. Su tutto questo possiamo però formulare solo ipotesi. Le nostre categorie mentali sono ormai lontane e in buona parte estranee al clima delle origini. Anche la comparatistica ci può dare un aiuto relativo. I popoli tribali e primitivi che ancora dipingono e incidono le rocce all’interno dei loro rituali non hanno manifestazioni artistiche paragonabili ai grandi dipinti parietali della Grotta Chuavet o di Lascaux. Forse alcune scienze, sospese tra natura e cultura, possono soccorrerci maggiormente. Prima fra tutte la psicoanalisi. Nel periodo in cui lavorava al romanzo biblico Giuseppe e i suoi fratelli, Thomas Mann, indubbiamente suggestionato sia da Freud che da Kerényi, si era convinto che scendere negli abissi del tempo fosse come calarsi nei recessi dell'anima. In entrambi i casi, ci si imbatte in una resistenza che ostacola la discesa e rende le tenebre del passato e la notte dell'inconscio, in qualche modo, solidali: "I percorsi, a un certo punto inevitabilmente si intersecano e vengono a coincidere". Al di là di questo punto stregato dello spazio-tempo in cui l’inconscio e il passato mescolano le loro acque limacciose, si estendono, a perdita d'occhio, le regioni dell'immaginario. Zone indistinte e vaghe in cui le figure dei sogni e i primi segni tracciati dall'uomo sembrano assumere le forme arcane di mitiche epifanie. Ed è proprio quest'intreccio di sogno, mito e immagine dipinta a ricorre nelle fantasie primitive come a suggerirci un senso nascosto. Joseph Campbell, nella sua monumentale ricognizione delle origini del pensiero religioso, individua diverse sorgenti del mito. La stessa propensione al "gioco rituale", che precede e struttura il mito, sembra affondare le sue radici in un momento assai remoto della nostra speciazione. Lo starebbe a dimostrare il comportamento di certe scimmie antropomorfe che, nella danza e nel rapimento gioioso, sembra racchiudere in nuce i semi mitogenetici destinati a germogliare lungo i rami della nostra linea evolutiva. A partire dagli Ominidi si potrebbero già delineare due diverse "aree cultuali": l'occidente coi suoi riti dell'ascia e l'oriente coi suoi riti del fuoco. L'uomo di Neanderthal avrebbe poi sviluppato queste forme embrionali di ritualità dando vita ai primi centri di elaborazione mitica la cui diffusione andava, nel Paleolitico medio, dall'Atlantico fino alle zone estremo-orientali dell’Europa. Il sopraggiungere della nostra specie avrebbe ulteriormente complicato il quadro, introducendo, insieme a nuovi modi di produzione materiale dell'esistenza, quelle credenze magiche ancestrali destinate a svilupparsi nelle complesse mitologie delle prime grandi civiltà storiche. Ora, se e in che misura l'Homo sapiens abbia effettivamente ereditato dagli ominidi che lo hanno preceduto una tradizione strutturata di riti e di culti, è difficile dirlo. Certo in Europa, le coppelle, le tacche, le sepolture rituali, il controllo del fuoco, l'uso dell'ocra rossa e la lavorazione delle asce a mano, prima dell'arrivo della nostra specie appartenevano già al patrimonio culturale dei Nenderthaliani che ci hanno preceduto; pratiche tutte destinate, del resto, a permanere e a riproporsi per millenni anche dopo la loro estinzione. Di fatto, però il salto qualitativo che caratterizza la nostra presenza è nettissimo. Pensiamo soltanto alle prime grotte dipinte dell'area franco-cantabrica - ad esempio ai felini e ai rinoceronti neri della grotta Chauvet - o alle figure più antiche, giallo-ocra e rosso-brune, delle grotte indiane di Bhimbekta immerse nella foresta tropicale. Pensiamo ai grandi animali della Grotta Apollo II in Namibia, agli elefanti chiari, evanescenti che s'intravedono appena in molte caverne africane sotto le tracce di segni più recenti o alle figure oniriche dei più antichi graffiti australiani. È da queste testimonianze originarie e concrete che inizia il nostro percorso di ricostruzione dell'immaginario mitico. Le prime forme d'arte visiva, infatti, con il loro linguaggio per molti aspetti vicino a quello del sogno, sembrano fornire, in maniera più decisa di altre testimonianze, la chiave d'accesso alle nostre dinamiche psichiche più universali. Agli inizi degli anni Venti, Freud, prendendo implicitamente le distanze da Jung, aveva sostenuto che sono proprio le esperienze ancestrali dell'Io, reiterate per millenni, a depositarsi nell'Es fino a formare il patrimonio dell'intera specie. "Sembra dapprima che le esperienze dell'Io vadano perdute per gli eredi: quando però si ripetono con sufficiente frequenza e intensità per molti individui delle successive generazioni, esse si trasformano, per così dire, in esperienze dell'Es le cui espressioni vengono consolidate attraverso la trasmissione ereditaria. In tal modo l'Es, divenuto depositario di questa eredità, custodisce in sé i residui di innumerevoli esistenze dell'Io, e può darsi che quando l'Io crea dall'Es il proprio Super-io, non faccia altro che trarre nuovamente alla superficie, facendole resuscitare configurazioni dell'Io di più antica data" . Esperienze che si ripetono dunque con sufficiente frequenza e intensità fino a diventare le fondamenta della nostra eredità psichica, le matrici del nostro modo di essere e di pensare. Nelle antiche immagini delle grotte possiamo forse scorgere la traccia di queste antiche configurazioni, i residui di pratiche reiterate per generazioni e generazioni, emotivamente cariche e destinate a plasmare le nostre dinamiche pulsionali più profonde. Sappiamo che le pitture delle origini, dopo aver costituito per millenni gli scenari rituali dei primi cacciatori-raccoglitori paleolitici, alla fine dell'ultima glaciazione scomparvero quasi del tutto dall'orizzonte della visibilità. Celate nelle viscere della terra, in grotte che, in molti casi, non vennero più frequentate, queste rappresentazioni magiche sembrano però essersi duplicate nel fondo della nostra anima, alimentandosi dei nostri desideri per poi risalire, come fiumi carsici, in superficie, in luoghi e tempi diversi, ma con un significato probabilmente non molto lontano da quello originario, facendo resuscitare –in tal modo- configurazioni di più antica data. In un certo senso, è come se la creatività artistica fosse riuscita a conservare intatte nei millenni le forme essenziali del substrato unitario del linguaggio simbolico delle origini. Nell'Ottocento la linguistica ci ha insegnato a seguire la diffusione delle parole e a riconoscerne le radici. Nel secolo appena trascorso abbiamo appreso che anche i geni migrano e che la biologia molecolare può dirci molto sugli spostamenti delle popolazioni. Oggi possiamo pensare che anche le immagini devono aver conosciuto complesse diaspore e che la loro capacità di travalicare le barriere linguistiche e gli steccati culturali sia del tutto straordinaria. Il primo a parlar in modo organico e coerente di questo processo migratorio delle immagini è stato Aby Warburg nei suoi studi sulla figura della Ninfa "dai capelli mossi" che dal mondo antico attraversa, agile nel tempo, lo scorrere dei millenni fino a giungere al Rinascimento e all’Età moderna. Il mio debito nei suoi confronti è infinito. Alle origini della civiltà troviamo figure paradigmatiche altrettanto suggestive intorno ai focolari dei ripari sottoroccia o nei templi naturali delle viscere della terra. Ritroviamo le stesse immagini sui sigilli numerici, nei templi aztechi, sui vasi ellenici. Le riconosciamo ancora sulle facciate delle cattedrali gotiche, nei codici miniati e nelle ansie visionarie della nostra modernità. Pensiamo allo stregone danzante della Grotta di Les Trois Frères che ci guarda con i suoi occhi tondi come ocelli ipnotici. E’ lo stesso sguardo fisso e frontale della Gorgone che ci segue dalle antefisse dei templi arcaici, dei leoni di marmo delle fontane rinascimentali, delle maschere del teatro di Bali. La distanza abissale che separa queste raffigurazioni sembra colmarsi in un continuum di carattere semantico prima ancora che grafico. Certo, nello scorrere delle culture, la valenza di queste immagini ricorrenti si piega a esigenze espressive diverse. Eppure, se seguiamo le loro migrazioni, pare quasi che, al di là di ogni contaminazione storica, queste figure siano riuscite a mantenere nel tempo lo stesso valore emozionale di fondo che ne ha prodotto la prima emergenza sulle pareti delle grotte paleolitiche. È da questi archetipi figurativi che trae avvio la nostra ricerca. Siamo del tutto consapevoli che si tratta di un lavoro parziale che non può che giungere a conclusioni provvisorie, utilizzabili forse in futuro in una prospettiva antropologica più consolidata e ampia. "Un'antropologia -come ha scritto Lévi-Strauss- intesa nel senso più largo, cioè una conoscenza dell'uomo che cerca di associare diversi metodi e diverse discipline, e che ci rivelerà un giorno le segrete forze che muovono quest'ospite, presente senza essere stato invitato alle nostre discussioni: lo spirito umano".
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