Intervista al prof. Roberto Di Lernia
Lo spazio dedicato alla Preistoria all’interno dei programmi didattici è quasi inesistente. Quali lacune vede nella formazione degli studenti provenienti dalle scuole superiori? Come pensa di poter valorizzare lo studio della preistoria nella scuola superiore e nell’ Università?
Non credo che ci sia particolare differenza fra i problemi della scuola superiore e quelli dell’università, il rapporto fra efficienza e inefficienza non è comunque a favore dell’università. Credo che gli studenti abbiano grossi problemi di motivazione, ovvero sono fondamentalmente demotivati; questo è dovuto al fatto che non hanno avuto adeguati stimoli nei percorsi intrapresi e ciò non vale solo per la preistoria, ma riguarda anche le scienze della vita più in generale. Esiste poi una ulteriore difficoltà, quando queste tematiche necessitano di una collocazione o di un contesto cronologico come ad esempio quello dei tempi dell’evoluzione . Le difficoltà sono in relazione sia al come si muovono gli studenti su questi temi, sia alle capacità di regia, motivazione e preparazione culturale degli stessi docenti. C’è una tendenza ad una cultura molto scolastica, fortemente vincolata al testo, visto come un riferimento autoritario piuttosto che autorevole; questo genera un’aspettativa un po’ “fondamentalista” nella quale il testo “scientifico” diventa quasi sacro. In questo modo si produce una specie di gabbia virtuale dalla quale l’insegnante non è portato ad uscire, ritenendo egli stesso che qualsiasi deviazione dallo schema del testo metterebbe in confusione gli allievi. Si crea così una specie di feedback per cui, in sostanza, lo studente subisce le lezioni così come se stesse assistendo ad una sorta di recita a puntate in cui conta molto di più la simpatia intrinseca del docente rispetto all’effettiva qualità delle informazioni ricevute; la noia può essere un tipica patologia di questo scenario. Gli studenti in genere non hanno una sensazione concreta di che cosa siano gli oggetti che fanno parte della realtà; nel corso di recenti esperienze didattiche sull’evoluzione dell’uomo, ho dato particolare enfasi al “contatto col materiale delle indagini”, mettendo proprio in mano a studenti di Medicina ossa, frammenti ossei, selci, includendo reperti anche problematici; tutto ciò con la finalità di suscitare sensazioni difficilmente inducibili attraverso lezioni solo teoriche o testi. Questo è un primo passo nel tentativo di far comprendere come una complessa opera di ricostruzione basata su “dati obiettivi”, non dipenda da una capacità inventiva a tutto campo (e quindi inaccessibile), ma possa originarsi da una serie di congetture spesso basate sull’interpretazione di dettagli, di particolari talvolta di per sé criptici. In questo modo gli studenti si sono resi conto che i quadri generali che vengono forniti possono anche confinare col limite della credibilità, ovvero possono essere plausibili, proponibili, però mai assoluti. In questo modo, e in particolare dove il dato scientifico è più sfuggente, ci si dà una ragione della conflittualità fra teorie, interpretazioni e soggettività. Ci vuole un contatto diretto e personale nel poter valutare criticamente i “pezzi” che rappresentano gli elementi probanti di una scena o di un contesto ancor più generale. Questo, se si vuole, non è altro che un processo investigativo o la simulazione di una diagnosi (per i medici!). Se l’operazione ha successo si riesce a capire che cosa è successo dentro l’investigatore, perchè ad ogni pezzo viene dato peso relativo adeguato. Credo quindi che il problema sia proprio quello di far sì che gli studenti entrino, vedendo e toccando le cose… Mettere gli oggetti di fronte o cercare di capire le operazioni che sono state fatte è una cosa che può dare maggior entusiasmo perché lo schema libresco, per quanto bello sia, spesso gratifica solo chi lo produce. Negli Istituti Superiori, soprattutto nei licei, sono poche le ore dedicate alle materie scientifiche. Ore spesso aride, demotivanti per lo studente. Manca una ricostruzione di senso. Cosa ne pensa? Bisognerebbe riprogettare l’insegnamento delle scienze nei licei e nelle università. Quello che succede è che uno studente che arriva dal liceo ed entra in università ha delle aspettative molto alte e in qualche modo spera di cambiare vita! Ma l’università si rivela una marcia forzata di esami, dove è difficile fare attività pratica nei laboratori e ciò in relazione a carenze umane e materiali radicate nel tempo. Fra i docenti universitari inoltre è abbastanza diffuso una sorta di atteggiamento autoritario nel quale è incluso il sentirsi depositari della Scienza con la “S” maiuscola; non esiste quindi molto spazio per la discussione e la comunicazione va gerarchicamente dall’alto al basso; gli studenti rimarranno con poca esperienza e il loro iter formativo assomiglierà ad un rally frastornante, con tanto di prove speciali, alla fine delle quali potranno selettivamente superare gli esami. L’esempio del rally è adatto perché spesso queste competizioni si svolgono in scenari di grande valore ambientale e umano, senza che i protagonisti in gara e l’organizzazione annessa si rendano minimamente conto di cosa li circonda e del contesto in cui operano. Alla fine di questa esperienza universitaria, con l’esclusione di alcuni “eletti” dotati dell’autosufficienza, buona parte degli studenti troverà difficoltà a convertire la delusione ereditata dalla scuola superiore in un qualcosa che apra loro spazi innovativi e realmente formativi , anzi questi possono essere addirittura preclusi. Se uno studente aveva una qualche un’idea di scienza intesa come libertà di ricerca, viene trasformato in proto-automa e avrà la sensazione di trovarsi a fare delle cose senza saperne il motivo. Restando una costante la mancata formazione di una base critica, molti studenti non concluderanno gli studi; questo ormai risulta un dato stabile e il nostro paese primeggia negativamente da anni all’interno della Comunità Europea. Gli studenti si arenano sulla spiaggia dell’illusione universitaria, che doveva essere quella in grado di cambiare la loro la vita e non si ritrovano, sono demotivati. Il problema ha caratteristiche generali nella nostra scuola a tutti i livelli della formazione. Insisto perché è da questa critica che a mio avviso bisogna ripartire, in particolare identificando chiaramente le carenze. Non ci sono spazi per attività pratiche, mancano i docenti che abbiano disponibilità, oltre che coscienza, di questo stato di cose. Si va verso la diminuzione delle risorse disponibili, mentre non c’è mai stata una politica seria d’investimenti da parte dello Stato, e questo da decine di anni. Siamo quasi prossimi ai livelli minimi, sotto i quali perderemo qualsiasi capacità di essere competitivi nel campo delle scienze di base e nelle ricerche applicate. È un problema di formazione a tutti i livelli e un modo per affrontarlo può essere il rendersene conto, ma soprattutto il produrre su larga scala proposte di formazione che abbiano come obiettivo principale “la visione critica” della realtà attraverso una visione ampia e contestuale. Ciò potrebbe realizzarsi attraverso un sinergismo con i diversi “esperti” i quali, indipendentemente o cooperativamente, si dedichino alle problematiche complesse. Un esempio: le scienze della vita, di cui l’uomo può essere un esempio o il riferimento principale. Come muoversi? Identificando delle tematiche (come ad esempio l’evoluzione umana) e verificando quali risorse a tutto campo sono necessarie per “muoversi correttamente”. Se facciamo riferimento all’uomo, il problema della formazione medica, oltre che riguardarci da vicino, può essere anche esemplare per tutto quello che vi è in gioco. Il futuro medico, nei primi anni di studio, riceve insegnamenti di discipline basilari come la genetica e la biologia, che di fatto oggi più che mai sono i piedistalli di tutta la patologia. Nella comunità accademica la genetica era fino a poco tempo fa percepita come una “cosa da biologi”, perché la vera medicina è la chimica che genera i farmaci. Oggi il medico che produce diagnosi e prescrive terapie, spesso non conosce o vede addirittura come complicazione per la sua “rapidità” decisionale l’incredibile espansione delle conoscenze della genetica. Il suo interesse primario è quello di ottenere una rapida conversione dei dati della ricerca in protocolli diagnostici. Se si trova una causa questa, deve necessariamente semplificare la diagnosi, altrimenti a cosa serve? Questa aspettativa professionale urta pesantemente con la complessità dei fenomeni vitali, che per tutta una serie d’interessi in gioco vengono poi banalizzati e diffusi attraverso i media. Non sono pochi i “luminari” della Medicina che ritengono e diffondono l’idea che la terapia genica sia l’arma dell’immediato futuro contro le malattie. Da qui la pubblicità in televisione o per radio, dove persone più o meno affascinanti invitano il grande pubblico ad una gara per raccogliere i fondi per la guerra alle malattie genetiche. Ma è la storia della vita che ci insegna come le malattie genetiche facciano parte della realtà dei viventi e sono di per sé “ineliminabili”. Alcune malattie genetiche sono più frequenti, e in questo caso si potrebbe fare opera di prevenzione eseguendo indagini sulla popolazione; ma dal punto di vista della salute intesa come bene della comunità, sarebbe anche necessario valutare se è più vantaggioso investire consistenti risorse nel modo citato, oppure intervenire su problemi dove la responsabilità del nostro agire è ben identificabile a livello planetario . Ad esempio prendere reali provvedimenti contro la fame del mondo e le patologie infettive riemergenti nei Paesi a basso sviluppo, oppure in quelli avanzati, mettere l’ambiente in condizioni tali per cui i tumori diminuiscano (invece di aumentare), potrebbero essere delle prospettive a medio e lungo termine notevolmente più vantaggiose per la comunità umana e concretizzabili in una migliore probabilità di coesistenza all’interno di essa . Di fatto i tumori aumentano perché si fa ben poco per la qualità dell’ambiente e, se ciò è vero, qualcosa non quadra. Se uno guarda alle morti di tumori per fumo in Italia, sono dimostrabili 70-80 mila decessi all’anno (la metà di questi sono tumori ai polmoni). Se nonostante questi numeri, e ai massimi livelli di evidenza, non si prendono comunque decisioni, mentre per contro si pubblicizzano i molti progetti e a tutt’ora gli scarsi risultati della terapia genica per patologie più o meno rare, è allora chiaro che non sono i reali costi-benefici della società che vengono presi seriamente in considerazione. In una società che si muove così, facendo riferimento alla Medicina, il formare gli studenti e renderli critici può anche darsi non sia l’obiettivo principale; infatti, alternativamente, la presa visione della realtà di queste contraddizioni dovrebbe essere ben in evidenza per tutti. Nell’insegnamento, se chi insegna possiede delle motivazioni (anche etiche), è difficile che non si ponga l’obiettivo di formare gente critica e preparata. È anche possibile però che elevati livelli di capacità critica vadano contro gli interessi del mercato che, come si dice, si autoregola, ma che deve sempre e comunque premiare il consumo. In questo senso l’aumento della capacità critica connesso alla formazione è probabilmente proprio quello che non serve, anche perché così i consumatori costerebbero molto di più in pubblicità ! C’è comunque un gruppo di illusi/disillusi, di cui probabilmente faccio parte, che hanno un’idea forse “obsoleta” di quelli che sono i valori portanti dell’umanità e che di fatto si trovano a confrontarsi con una realtà che va al contrario. Se questa è la realtà, gli spazi d’azione risultano ridimensionati e ognuno deve costruirsi delle nicchie in cui interagire, facendo leva sul proprio ottimismo. In questo caso credo che il problema si ponga in termini motivazionali: la gente, per avere entusiasmo in quello che fa, deve avere delle suggestioni, deve cogliere gli aspetti intriganti di un problema. Bisogna sentirsi protagonisti e molto spesso gli insegnanti non sono in grado di fare sentire protagonisti gli studenti. O forse semplicemente ne hanno poca voglia. Con Marina Nova abbiamo messo in atto un’interessante esperienza didattica, occupandoci dell’evoluzione umana con un gruppo di studenti di Medicina; siamo partiti dall’idea che un processo conoscitivo abbia un cardine nell’osservare: l’imparare osservando. Anche qui ci sono delle regole: bisogna starci, ad osservare; poi bisogna descrivere e anche qui esistono regole: da tecniche di descrizione assimilabili ad una morfologia pittorica si giunge fino all’analisi computerizzata delle immagini. Le immagini e l’uso degli strumenti adeguati in funzione dello scenario in cui ci si muove sono fondamentali. Con questi ed altri elementi è già possibile tentare le prime congetture e, ricercando le possibili correlazioni, anche delle interpretazioni plausibili. Il progetto didattico sulla Preistoria che stiamo sviluppando agisce su due livelli. Uno si rivolge agli studenti a livello superiore e universitario, l’altro livello è quello dell’aggiornamento dei professori. Cosa non dovrebbe mancare secondo lei in un progetto didattico rivolto ai professori? Sicuramente è necessaria la presenza di “esperti reali”, che siano in grado di motivare anche i docenti operanti all’interno del progetto. È comunque necessaria una nuova disponibilità e apertura da parte dei docenti stessi e che non sempre è facile ottenere. In questo senso manca ancora la cultura. In un recente passato in ambito accademico insieme ad alcuni colleghi avevamo costituito un gruppo interdisciplinare per lo studio di problemi complessi in ambito biomedico. Fu originato un dottorato di ricerca in cui bio-matematici, statistici, medici, biologi, fisici, informatici ed esperti della comunicazione, oltre al comunicare fra loro, mettevano a disposizione le proprie competenze a favore dei neolaureati. L’idea era quella di far si che un medico, un biologo, un fisico, un informatico neolaureati, potessero interagire tra loro nell’affrontare un problema complesso, avendo come riferimento i vari esperti; questi ultimi a loro volta non erano i proprietari culturali di queste persone, ma erano coloro che trasmettevano la cultura per far sì che il progetto funzionasse. Qualcosa di simile oggi si può simulare attraverso l’organizzazione di un forum su internet e se si vuole presenta il vantaggio o lo svantaggio della riduzione netta delle difficoltà occorrenti nei rapporti personali Nonostante il successo della nostra iniziativa, sia per i risultati ottenuti come per il modo nuovo di relazionarci, a livello accademico questa intercomunicazione alla fine fu bloccata. Non entro nel merito delle motivazioni specifiche, ma sicuramente la presunzione di essere i depositari della scienza porta ad evitare la competizione. Non si vuole che qualcuno dica: non sono d’accordo con te. Sostanzialmente non c’è disponibilità alla comunicazione trasversale e interdisciplinare. Con questa realtà bisogna fare i conti, perché per portare innovazione in un progetto di formazione è necessaria la massima apertura, modestia e onestà culturale di tutte le componenti. Per cui, aggiornare i docenti può diventare qualcosa di molto promozionale e anche impegnativo. Penso che il suggerimento che posso darvi sia quello di sperimentare, di mettere insieme delle persone motivate che riescano a non avere barriere fra loro e che poi provino a validare la qualità del prototipo didattico di cui curano la crescita, il funzionamento e le difficoltà che avrà. Non posso però fare a meno di pensare a come iniziative di questo genere dovrebbero anche sposarsi a un qualche concezione realistica e positiva sul futuro del nostro Paese, in assenza della quale tutto si ridimensiona. Indipendentemente dai rischi contestuali credo che convenga comunque andare in questa direzione anche se le resistenze incontrabili sul percorso potranno limitare l’applicabilità dei risultati. D’altra parte, se la gente non tenta di smuovere e fare qualcosa si andrà sempre più indietro… Il problema fondamentale è di unire le varie discipline…Sì, ma con un atteggiamento che non sia pervasivo, invasivo, con un po’ di modestia, un po’ di onestà. Su questo bisogna cercare degli stimoli, fare dei passi avanti. Lei condivide il fatto che ci sia una didattica che vada relazionata ai contenuti, che sia relativa a degli universi specifici: didattica della Preistoria, ad esempio. Non didattica come pass-partout che apre tutte le porte? Penso sia condivisibile, nel senso che la conoscenza settoriale può richiedere delle metodologie e degli approcci che non sono automatici e questi dovrebbero essere sottoposti al filtro di chi effettivamente ha maturato un esperienza in un campo specifico. Questo può anche voler dire che uno trasferisce un qualcosa di personale e quindi non necessariamente asettico. Pur tenendo presente questa possibilità,non bisogna minimamente trascurare il fascino di un’esperienza vissuta all’interno di un contesto. In altre parole: la guida all’interno di un percorso formativo e culturale deve possedere idealmente “un’esperienza vissuta”, come le necessarie capacità critiche per una visione sistemica che tenga in massimo conto l’altrui esperienza . Come va affrontato secondo lei il problema della multidisciplinarità che viene chiamata in causa in questo processo ricostruttivo delle nostre origini? Come già accennato questa è una grossa battaglia.; la sfida è estremamente interessante. Bisogna trovare delle persone che ci credono, ovvero il punto di riferimento per una volontà e sincerità nello sforzo di comunicare e comprendersi reciprocamente. Oltre un certo livello, comunque, non si riuscirà ad andare, ma se ci si crede, tutti faranno uno sforzo per sovrapporre al meglio i propri spazi conoscitivi. In questo senso lo scoprire l’esistenza di aree non combacianti non deve bloccare il cammino della macchina multidisciplinare, ma essere spunto di ricerca del perché delle possibili incomprensioni (frequentemente di solo linguaggio!). L’esempio che mi viene in mente, senza entrare nell’argomento specifico, trae spunto da una recente tesi di laurea in fisica della quale, come biologo, sono stato correlatore. Quando ci troviamo di fronte alla complessità dei sistemi viventi, l’atteggiamento del “pensiero fisico” tende ad imporre dei modelli di descrizione della realtà che devono quadrare con l’esigenza di una sua formalizzazione sotto forma di una “qualche equazione”, perché altrimenti, mancando la possibilità di fare delle previsioni, i risultati sono carenti di “scientificità”. Sull’altro fronte, “il pensiero biologico” ritiene che l’intrinseca complessità (mancanza di conoscenze) dei sistemi biologici, di fatto impedisce al momento la scrittura di equazioni che descrivano i “fenomeni vitali” e che siano predittive degli stessi. In questo caso sono al momento inadeguati sia l’approccio puramente fisico, sia quello riduzionista del biologo che ricerca singole relazioni di causa-effetto. Se nel frattempo è aperto lo spazio per animate discussioni, si può congetturare come in futuro, fatti i necessari progressi, l’integrazione fra due modi di vedere rappresenterà una vera innovazione per la conoscenza e in questo bisogna crederci, incentivando la collaborazione. Mettere quindi insieme componenti molto diverse, con aspettative forse molto diverse, non è detto che sia facile. Generalizzando si può sostenere che così come nella ricerca, anche nella formazione un singolo avrà scarse possibilità di reale successo; un gruppo di persone motivate genererà un lavoro che a sua volta sarà palestra per una comunicazione usufruibile a diversi livelli. In sintesi sarà un modo diverso di fare; il porsi più domande, fare più critica, avere più stimoli. Personalmente ritengo che questa procedura sia l’unico modo per il quale valga la pena di fare. Il resto lo trovo poco interessante. Mi interessa avere un’interazione con persone motivate, che hanno una carica reale sui problemi di cui si occupano e sui quali ricercano confronti. A proposito di motivazione: perché secondo lei vale la pena di affrontare lo studio della preistoria? Ce ne sono tanti di motivi. Quando ero ragazzino andavo a scavare nelle grotte e questo faceva parte dei miei interessi. Inoltre Frequentavo il “Gruppo Grotte di Milano”, dove ebbi modo di conoscere un prestigioso paletnologo : il conte Cornaggia Castiglioni , persona affascinante e piena di senso dell’umorismo. Con lui ho partecipato a campagne di scavo in Lombardia e in Gargano; recentissimamente al Museo di Storia naturale di Milano ho riconosciuto, “teneramente emozionato”, un reperto esposto di ceramica dipinta che era stato oggetto di studio del Conte e che lui stesso mi aveva dato in visione perché lo disegnassi per una pubblicazione che era in corso. Trovavo forti motivazioni e il discorso della Preistoria era qualcosa che mi interessava di per sé, anche per una mia radicata sensibilità per le scienze naturali in generale . Esistono componenti estremamente emotive, come quando al primo anno di università mi ero trovato a fare dei “saggi di scavo” nelle spiagge di Marina di Camerata e lì non c’era nessuno, solamente un mare pulitissimo, pieno di pesci, nel silenzio più totale, con le lucertole verdi che camminavano su delle arenarie rosse. Dalle brecce spuntavano selci verdi e frammenti ossei e io provavo un’emozione interna perché potevo toccare ed essere testimone di un qualcosa che era esistito, successo e che sebbene molto lontano nell’immaginazione sembrava presente. Mi sentivo protagonista di questo fenomeno dello scorrere della vita. Da lì a capire il significato dei reperti, si originava tutta una procedura che aveva i sui passaggi obbligati nella pulizia del materiale, l’analisi, l’andare al museo per vedere con cosa si poteva comparare, ricercando le persone in grado di dare dei giudizi competenti. A mio parere, insomma, la ragione per cui uno si occupa di queste cose può essere molto personale, ma se si è in grado di trasmettere gli stimoli adeguati, la legittima curiosità di esplorare il nostro passato può essere diffusa a molti. Personalmente faccio fatica a pensare che persone curiose e sensibili non possano subire il fascino delle proprie origini e questo indipendentemente da una specifica formazione culturale. Forse il limite è proprio quello che deve comunque esistere una formazione culturale, perché in assenza di questa, oggetti come il televisore o simili saturano il mondo degli interessi personali. Sicuramente, parlando di giovani, l’induzione di passività mediata della televisione può rappresentare un problema . Nell’ambito di un nuovo progetto didattico sulla Preistoria, secondo lei quali sono i punti cardini irrinunciabili. Cosa non può mancare? Che la gente veda tutto il materiale disponibile e da lì sia organizzato un percorso dove il singolo oggetto venga presentato come facente parte di uno scenario relazionabile ad un contesto ampio. In questo percorso l’intervento degli esperti deve essere sempre disponibile, ma il loro contributo non deve soffocare il processo di coinvolgimento-apprendimento. Le domande e i vari interrogativi devono essere condivisi da tutta la comunità afferente al “progetto didattico” al punto che in qualche caso ci si potrebbe aspettare anche una certa innovazione nelle risposte e di conseguenza nuovi stimoli per la ricerca. Inizialmente farei un inventario critico di quello che è culturalmente disponibile, valutandolo anche storicamente. Questo è importante perché a volte le domande sono le stesse, ma i dati cambiano perché si usano strumenti di ricerca solo più sofisticati. Ad esempio: la ricostruzione di uno scheletro basata su pochi frammenti dispersi può essere il punto di partenza per giungere a ricavare una ipotesi probabile sull’aspetto di un nostro progenitore. Oggi siamo molto raffinati e tecnologici rispetto a questo problema Nell’Ottocento, ma anche molto oltre, “era” molto radicata una “visione razzistica” secondo la quale i nostri predecessori dovevano essere necessariamente degli scimmioni imbecilli e aggressivi. Questa mentalità non è sparita, ma occorre arrivare a rendersi conto di come certe modalità di vedere la realtà rappresentano il meglio di ciò che è disponibile, non in senso definitivo. Ecco perché la procedura con cui si arriva ad una qualche conclusione deve partire da un’analisi dei riferimenti. Se non si hanno riferimenti, e questi riferimenti non sono validati da tutti, non si può fare nessuna ricostruzione di qualsiasi tipo. Questo diventa un metodo di indagine estremamente educativo e formativo, attraverso il quale si possono pesare e relazionare gli elementi disponibili. È un po’, come dicono i fisici, il tentativo di costruzione di un iperspazio in cui le diverse realtà vengono messe a confronto e la loro probabilità d’integrazione deriverà da un’attività multidisciplinare , dove tutti gli operatori si sentiranno attivi e protagonisti.
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