Qualcuno maliziosamente dice che i Nomadi oggi sono una cover-band: abbiamo girato la domanda a Beppe Carletti...
Tenere in piedi un gruppo che ha cominciato a incidere nel 1965 nel ruolo di unico superstite della formazione originale non è un’impresa facilissima. Beppe Carletti, tastierista e colonna dei Nomadi, c’è riuscito a dispetto delle difficoltà e della tragica perdita di Augusto Daolio, cantante e simbolo del gruppo emiliano. Sa bene di avere dalla sua parte un pubblico fedele e lui onora il patto con gli ammiratori, senza prenderli in giro con uno spettacolo di puro revival. Il nuovo album “Amore che prendi amore che dai” non porta particolari rivoluzioni nella musica dei Nomadi post-Daolio, ma ne conferma la natura di gruppo “della gente”, schietto e lontano da pose divistiche. I palati più sofisticati possono anche non apprezzare la semplicità con cui affrontano temi sociali importanti, ma probabilmente gli aficionados non sanno che farsene di raffinati argomenti intellettuali. E, a occhio e croce, lo stesso vale per Carletti e il bassista Massimo Vecchi, che abbiamo incontrato durante la loro trasferta promozionale a Milano.
Al di là dei musicisti esterni, “Amore che prendi, amore che dai” è un lavoro in pieno stile Nomadi, siete immediatamente riconoscibili.
Beppe: Guai se non fosse così. Non avrebbe senso un cambiamento radicale. Se le cose andassero male, ci si potrebbe pensare, ma non c’è motivo di cambiare tanto per farlo. Noi pensiamo di essere cresciuti musicalmente, nell’affiatamento e negli arrangiamenti, abbiamo cercato di vestire le canzoni a seconda di quello che raccontano. Per noi è uno dei dischi più belli che abbiamo fatto. Sarà forse perché è l’ultimo, ma ci crediamo molto. Abbiamo curato tutti i pezzi, come facciamo sempre. Non siamo un gruppo che si preoccupa solo del singolo, cerchiamo di avere tutte canzoni di buon livello. Per noi sono ipoteticamente tutti singoli.
Anche questo è perfettamente in linea con la vostra tradizione: non avete certo la reputazione di “gruppo da singolo”.
Beppe: No, infatti. Il singolo serve soprattutto a far sapere che è uscito un disco. La nostra preoccupazione è fare in modo che la gente che va a comprarsi il CD poi non dica: ‘va be’, ma sono tutte uguali’. Penso che questo disco non dia proprio questa impressione, sembra quasi una compilation, “Il meglio di”.
Massimo: Uno dei complimenti più belli che abbiamo ricevuto per questo disco è che si sente che la band suona. E’ bello che questo si capisca, penso che sia anche un modo per riassumere gli ultimi quattro anni che abbiamo trascorso insieme.
Beppe: Sì, si sente che stiamo bene insieme.
Una condizione indispensabile, visto che i vostri tour di solito sono pieni di date.
Massimo: Questo è sicuro. Restando insieme per 280 giorni all’anno, se non si va d’accordo, c’è da tirar fuori il coltello prima o poi.
Beppe: Adesso le cose vanno molto bene, è una bella situazione. Aspettiamo cosa dirà il pubblico. Il primo concerto di presentazione del disco in un piccolo teatro è stato bello. C’erano vecchi fans e anche gente che non ci aveva mai sentito dal vivo. Abbiamo ricevuto una standing ovation per “L’angelo caduto” e non ce l’aspettavamo. Anche se suono da 40 anni, mi sono commosso.
Se questo è uno dei vostri lavori migliori, ce ne sono alcuni che considerate poco riusciti o da dimenticare?
Beppe: Musicalmente ce ne sono senz’altro. Ma c’erano situazioni che non ci permettevano di stare tranquilli mentre registravamo. Ad esempio c’erano pressioni del produttore, che adesso non abbiamo più, che è una figura importante ma può anche pesarti.
Massimo: A volte rischia di snaturare il modo in cui suoni.
Beppe: In un modo o nell’altro ti condiziona. Non voglio citare titoli, ma non ho vergogna ad ammettere che, andando un po’ indietro negli anni, ci sono dischi fatti un po’ male, e anche diversi giornalisti ce lo avevano fatto notare. Un po’ era colpa nostra: prima degli anni ‘90 facevamo molte serate e non curavamo molto le registrazioni. Col tempo abbiamo imparato a divertirci anche in studio. Negli ultimi quattro anni in particolare mi sto divertendo molto a registrare, e in passato non l’avrei mai pensato possibile.
Ricordo che a metà degli anni ‘80 non raccoglievate molti consensi dalla critica.
Beppe: Eravamo senza casa discografica, e ci producevamo da soli i dischi, senza grandi mezzi. Se li vado a riascoltare, mi arrabbio perché erano registrati male, anche se c’erano belle canzoni. Li facevamo in fretta, anche perché non ci divertivamo molto a stare in sala.
Massimo: All’epoca, io ero solo un fan del gruppo e i dischi migliori dei Nomadi in quel periodo secondo me erano i live.
Negli anni ‘90 invece le cose sembravano mettersi al meglio, poi sono arrivate due mazzate tremende, con la scomparsa di Dante Pergreffi prima e Augusto Daolio poi. Come sei riuscito a tenere in piedi la baracca?
Beppe: Sì, tutto si stava sistemando: eravamo rientrati nel giro discografico che conta, le cose andavano bene. Poi è andata come sai e sembrava che tutto fosse finito, che non ci fosse più nessuna possibilità di risalire. Poi ho cominciato a ragionarci e mi sembrava giusto andare avanti. Non immaginavo che questo volesse dire essere ancora qui adesso, avevo diversi dubbi, poteva essere una cosa destinata a spegnersi. Siamo stati aiutati dai fans: volevano che continuassimo, che suonassimo ancora le nostre canzoni e, principalmente, volevano ricordare Augusto. Ai nostri ammiratori piace anche incontrarsi fra di loro, siamo un po’ il loro punto d’incontro. Siamo ripartiti nel ‘93, con Danilo Sacco e Francesco Gualerzi che cantavano. Mi sembrava una buona idea, anche per non far ricadere su una persona sola la responsabilità di fare il leader. Pensavo che la gente avrebbe accettato meglio la nuova situazione e avrebbe capito la volontà di dare un senso al fatto di continuare, in modo un po’ diverso rispetto al passato. Alla fine del ‘97 la bassista Elisa e Francesco hanno deciso di abbandonare. I dischi stavano andando bene, sono arrivati Massimo e il violinista Sergio Reggioli e a quel punto è partita un’altra storia, perché cambiare due componenti non è uno scherzo. Il bassista poi è fondamentale: se fai il confronto fra i dischi precedenti e gli ultimi, si sente la differenza di suono e di grinta, anche perché ognuno porta nel gruppo le sue esperienze.
Visto che hai deciso di proseguire sulla spinta delle reazioni del pubblico, un eventuale segnale negativo potrebbe farvi pensare di smettere?
Beppe: Spero che accada il più tardi possibile e spero di accorgermene in tempo. Non vorrei fare la fine dell’ex-pugile.
Massimo: Esatto. Se proprio si dovesse chiudere, sarebbe meglio farlo in bellezza.
Beppe: Penso che la storia dei Nomadi si meriterebbe un bel finale, non un crollo. Poi, non so… Negli anni ‘80 pensavo proprio che la cosa andasse a finire perché eravamo senza casa discografica, facevamo i dischi in tre giorni e via andare, non c’era una bella situazione. Ma sai cosa c’è? Io vengo dagli anni ‘60, quando suonavo nelle balere per far ballare la gente. Non sono partito trovandomi subito sul palco come artista incensato e riverito. La mia paura è quella di non accorgermi di essere in calo, perché in fondo sono sempre stato sul palco. Ho suonato davanti a poca gente, poi ne ho avuta tanta, negli anni ‘80 ne ho avuta un po’ meno.
Una delle considerazioni più cattive su di voi è che siete quasi una cover band dei Nomadi, visto che l’unico membro originale rimasto è Beppe. Avete mai considerato la cosa da questo punto di vista?
Beppe: Penso di no. E poi, se anche fossimo una cover-band, be’, con 130 concerti all’anno e il nostro cachet, saremmo una bella cover-band. A tanti piacerebbe essere in una posizione del genere.
Massimo: Di sicuro. E non lo dico a caso, visto che ho suonato nelle cover-band per diverso tempo.
Beppe: Se non avessimo fatto altri dischi dopo la morte di Augusto, allora saremmo stati una cover-band. Forse per il pubblico e anche per i giornalisti è difficile separare i Nomadi fino al ‘92 dai Nomadi cominciati nel ‘93. Di sicuro in questa seconda fase non abbiamo più fatto una “Dio è morto” o una “Noi non ci saremo”, ma sono anche cambiati i tempi. Voglio vedere chi ha scritto una canzone tipo “Auschwitz” dal ‘93 in poi. Il mondo è cambiato, c’è un’aria diversa. E comunque, se si leggono i testi delle canzoni che abbiamo scritto negli ultimi anni, penso che si possa dire tranquillamente che abbiamo rispettato tutto quello che abbiamo fatto in passato. Quindi, in fondo… la cover-band la accetto. Essere in una cover-band di me stesso mi sta bene. E poi, voglio essere megalomane: se siamo ancora qui nel 2002, con un album che ha già un sacco di copie in prenotazione vuol dire che qualcosa di buono l’abbiamo pur fatto. Certo, il passato ci ha avvantaggiato.
Sul vostro album compaiono i marchi di una azienda di abbigliamento e di una di scarpe. A molti gruppi dà fastidio la possibilità di venire associati a prodotti commerciali, soprattutto se nelle loro canzoni esprimono opinioni sociali o politiche. Come vedete voi la questione?
Beppe: Il punto è che ci autogestiamo: abbiamo un manager che si occupa di varie questioni e dobbiamo pagarci tutto, a cominciare dai manifesti. Abbiamo questi due sponsor che ci danno abiti e scarpe, niente soldi. In effetti, sono più amici che sponsor: a loro interessa che mettiamo il marchietto sui dischi, è ovvio. Ma finisce tutto lì, è uno scambio fatto più che altro in amicizia. E poi sono pure belle scarpe, perché non dovremmo accettarle?
(Paolo Giovanazzi)