La leggenda di Ulisse

C’era una volta, circa 4000 anni fa,
un Re che si chiamava Odisseo, anche se poi quasi tutti lo chiamarono Ulisse.
Era il Re di una piccola isola che galleggiava sul mare Egeo, mare che bagnava l’antica Grecia e che continua a bagnare la Grecia attuale.
Un giorno Menelao, che non era un gatto ma il Re della città di Sparta, lo chiamò perché voleva organizzare una missione di guerra con tutti gli altri Re della Grecia per riportare a Sparta una giovane fanciulla che era bellissima e che si chiamava Elena.
Elena era tanto bella che Paride, il figlio del Re della città di Troia volle rapirla per farne la sua sposa.
Ulisse, uomo forte e coraggioso, accettò la proposta e decise di partire con il suo esercito alla volta della città di Troia, lasciando la sua piccola Itaca, la moglie Penelope, il figlio Telemaco, il padre Laerte ed il fedele cane Argo.
Ulisse era molto affezionato alla sua isola, ai suoi cari ed anche alla sua casa nella quale aveva costruito il talamo nuziale scavandolo all’interno del tronco di un grande albero di ulivo ormai secolare, ma era anche affascinato dalla prospettiva di poter vivere nuove esperienze, e quindi si imbarcò con il suo esercito.

Dopo un lungo navigare, Ulisse e gli altri Re della Grecia giunsero con le proprie truppe sotto le mura della città di Troia.
Le mura erano alte e spesse e ben tenute ed i troiani erano abili e coraggiosi combattenti.
Così i guerrieri greci dovettero impegnarsi in un lungo assedio durante il quale si svolsero innumerevoli battaglie con esito sempre incerto ed alterno.
Alla fine, dopo dieci lunghi anni, i Greci decisero di affidarsi alla formidabile astuzia del Re Ulisse il quale ebbe un’idea incredibilmente originale: quella di costruire un enorme cavallo di legno, tanto mastodontico da poter accogliere nel suo ventre quasi un intero esercito.
Così terminati i complessi lavori di costruzione del cavallo, molti guerrieri greci, arrampicandosi su altissime scale, si nascosero all’interno del cavallo che aveva uno sportello al posto della sella.
I greci che non trovarono posto all’interno del cavallo si celarono alla vista dei troiani.
All’aurora del mattino seguente, i troiani dalla forte lancia, videro con mirabile sorpresa, al posto dei soliti accampamenti nemici, un gigantesco cavallo di legno, collocato su quattro grandi e robuste ruote, che troneggiava proprio davanti alle mura della città.
Si chiesero subito il perché di quella strana visita.
Qualcuno disse che probabilmente era un dono degli dei e che era meglio farlo entrare dentro le mura affinché gli dei non si adirassero. Per far ciò i troiani dovettero abbattere la porta della città ed anche un tratto delle mura.
Appena il cavallo fu trainato dentro la cinta delle mura iniziarono grandi festeggiamenti perché si pensava che la guerra fosse finita ed i nemici fossero tornati alle loro case.
Ma sul più bello, quando ormai il vino aveva inebriato le menti dei troiani, Ulisse fece cenno ai suoi uomini di uscire dal cavallo, così decine e decine di guerrieri armati fino ai denti sgattaiolarono giù nelle vie di Troia seminando il terrore, saccheggiando la città e infine addirittura incendiandola.
I Greci ripresero la bella Elena dagli occhi di cerbiatta e la imbarcarono in fretta e furia su una nave per riportarla presto a Sparta tra le braccia di Menelao.

Ulisse salì sulla propria nave insieme con quello che restava del suo esercito per tornare nella sua Itaca.
Ma il viaggio di ritorno non fu breve, anzi fu molto lungo ed avventuroso.
Ulisse navigava a remi e a vela ed ogni tempesta lo riportava indietro di miglia e miglia facendolo approdare in terre strane popolate da personaggi straordinari.
Quando ormai la costa di Itaca era in vista, Ulisse pensò che sarebbe stato meglio rimandare l’approdo per tuffarsi in una nuova avventura.
Aveva infatti sentito parlare di un’isola popolata dalle "sirene", esseri bellissimi, metà donna e metà pesce, che con il loro canto ammaliavano i naviganti.
I suoi compagni erano invece sfiniti e desideravano tornare nelle loro case.
Allora li convocò tutti sul ponte della nave e disse loro che gli uomini non erano venuti al mondo per vivere come bestie, ma che erano nati e cresciuti per conquistare virtù e conoscenze sempre nuove.
Dopo un breve, ma intenso discorso Ulisse riuscì a convincere tanto bene i suoi compagni che subito dopo, se egli avesse cambiato idea, non sarebbe stato capace di trattenerli dal ripartire verso nuovi viaggi.
In un attimo rialzarono le vele e le offrirono al vento per riprendere il largo verso l’isola delle sirene.

Ulisse sapeva che il canto delle sirene era irresistibile da quanto era incantevole e faceva perdere l’orientamento agli equipaggi delle navi tanto che si incagliavano sulle scogliere, così le sirene potevano fare prigionieri i marinai e renderli schiavi.
Ulisse, dalla mente assai astuta, ebbe l’idea di turare le orecchie dei suoi uomini con tappi di cera d’api in modo da impedire loro di ascoltare il canto e di subirne il fascino. Poiché Ulisse era molto curioso, anziché tapparsi le orecchie, preferì farsi legare dai compagni all’albero maestro della nave con una corda talmente resistente che avrebbe trattenuto un toro scatenato.
Per fortuna i marinai sono abili nell’arte di fare i nodi, perché il richiamo melodioso delle sirene era talmente dolce che Ulisse pensò di avere le orecchie di miele e tentò invano di slegarsi per raggiungere l’isola quasi fosse sospinto da uno slancio irrefrenabile.
I compagni che non potevano ascoltare il canto continuarono a remare di buona lena e governarono la nave tra i flutti in salvo dalle insidie delle sirene.

Dopo un lungo tratto di navigazione approdarono su un’altra isola dalla vegetazione tanto aspra e selvaggia che sembrava disabitata.
C’era solo un gregge di pecore che pascola tranquillo in una verde radura.
Ulisse pensò che non poteva esistere un gregge senza pastore, allora ordinò ai suoi uomini di effettuare accurate ricerche, ma non trovarono nessuna traccia. di essere umano.
Ad un certo punto notarono una grande grotta che si apriva vicino alla vetta di un’altura e si affacciava a picco sul mare.
Ulisse, ansioso di conoscere il cavernicolo, si arrampicò lungo il costone roccioso e fu subito seguito dai suoi compagni.
Appena entrati nell’anfratto videro immediatamente qualcosa di strano: tutto era enorme, grandioso ! C’era un bicchiere all’interno del quale un bambino poteva fare il bagno, un cappello che poteva coprire almeno sette teste dalla folta chioma, un letto dove potevano dormire 5 uomini e 5 donne con la relativa prole.
Ulisse ed i suoi compagni rimasero assai impressionati da tale insolita visione, ma la meraviglia si trasformò in pànico quando l’apertura della grotta all’improvviso si oscurò completamente. Era arrivato il padrone di casa, il ciclope, un gigante alto almeno una dozzina di spanne che tuonò minaccioso "voi chi siete, cosa volete ? Adesso siete miei prigionieri!"
A quel punto Ulisse ed i suoi uomini sentirono che la clessidra della loro vita si stava vuotando e cercarono di nascondersi negli anfratti più bui della caverna.
Il ciclope disse loro di abbandonare le speranze e aggiunse che li avrebbe mangiati, sì mangiati! Uno al giorno ogni mattina, a colazione.
Il Ciclope era un gigante alto e forte e faceva impressione a guardarlo perché aveva un solo occhio in mezzo alla fronte.
Ulisse, con grande coraggio e con la solita astuzia, cercò di avvicinarsi per iniziare una conversazione sapendo che le forti inimicizie spesso nascono dalla mancanza di conoscenza e che il dialogo unisce le persone più distanti, instaura nuovi rapporti e rinsalda quelli già esistenti.
Tuttavia il ciclope si mostrò assai diffidente, quasi scorbutico, e solo quando Ulisse gli offrì un’anfora di vino dolce come il nettare che lui stesso aveva prodotto ad Itaca, si avvicinò incuriosito e addirittura disse anche che il suo nome era Polifemo.
Ulisse guardandolo fisso nell’unico occhio ebbe una delle sue fantastiche idee....
Dopo aver offerto in dono il vino, Ulisse andò a cercare un grosso tronco di albero che aveva prima visto in fondo alla grotta e che serviva al ciclope per alimentare il fuoco che era sempre acceso.
Ordinò ai suoi compagni di ripulire bene il tronco e di appuntirlo con la scure.
Quella sera Polifemo, dopo aver scolato il vino fino all’ultima goccia, si addormentò pesantemente ricordando ai suoi ospiti di avere ancora intenzione di mangiarsi uno di loro il mattino successivo.
Ulisse, non appena il gigante incominciò a russare in modo assordante, chiese ai suoi uomini di passare sul fuoco la punta del tronco fino a renderla incandescente.
Quindi imbracciarono tutti insieme il pesante legno e, scagliandolo con mossa abile e sapiente, lo conficcarono nell’ occhio del ciclope che lanciò un urlo impressionante andando su tutte le furie.
Il ciclope si accorse di essere stato beffato e di aver perso la vista. Furibondo, bloccò l’uscita della grotta minacciando che NESSUNO sarebbe uscito vivo.
Polifemo passò il resto della notte lamentandosi e inveendo nei confronti dei suoi prigionieri.
La mattina successiva il gregge smaniava per uscire e Polifemo, seduto all’uscita della grotta, faceva passare le pecore una alla volta accarezzandole con cura per non correre il rischio di far scappare uno dei suoi ospiti.
Ulisse vedendo la scena escogitò una delle sue astuzie e disse ai compagni di attaccarsi con le mani al vello delle pecore in modo da rimanere occultati sotto la pancia degli animali.
Uno dopo l’altro i compagni di Ulisse uscirono dalla grotta ognuno sotto ad una pecora. Ulisse rimase per ultimo e si attaccò al vello del caprone più anziano del gregge. Al momento del passaggio il ciclope fermò il caprone confidandogli ad alta voce che avrebbe voluto sapere almeno il nome di colui che aveva osato accecarlo.
Ulisse allora con un velo di tragica ironia, restando sempre nascosto sotto la pancia della bestia, disse che si chiamava NESSUNO e che stava uscendo vivo dalla grotta.
Polifemo allora, resosi conto della nuova beffa e adirato ancor di più, iniziò a scagliare enormi massi verso il mare da dove Ulisse ed i suoi compagni stavano per ripartire dopo essere saliti in gran fretta sulla nave. Fortunatamente per loro la mira del gigante non era, e non poteva del resto essere, quella di quando aveva un solo occhio!

Un bel giorno, dopo queste e tante altre peripezie, finalmente Ulisse fece ritorno ad Itaca.
Erano ormai passati 20 lunghi anni ed era talmente segnato dalle ingiurie del tempo e dalle percosse della vita che nessuno lo riconosceva.
Solo il fedele cane Argo, annusandolo, cominciò a scodinzolare felice mostrando così di riconoscerlo, ma purtroppo non fece in tempo a comunicare a nessuno la sua scoperta perché il suo vecchio cuore non resse a tanta emozione.
Ulisse, con l’animo metà triste e metà allegro, si avvicinò allora alla sua vecchia reggia assumendo le sembianze di uno straniero mendicante.
Trovò la casa ed i giardini invasi da loschi individui altezzosi e ignoranti che pretendevano di sposare la regina Penelope per prendere il posto di Ulisse, credendo che fosse ormai morto.
Ma Penelope, moglie devota e fedele, prendeva tempo dicendo che si sarebbe sposata solo dopo aver terminato la tessitura di una immensa tela che di giorno tesseva e di notte puntualmente sfaceva.
Solo lei infatti sperava nel ritorno dell’amato Ulisse.
Nell’attesa i pretendenti, tracotanti nella loro arroganza, mangiavano, bevevano e giocavano accampati nella reggia.
Durante i loro giochi si sfidavano in imprese più o meno impossibili.
Una volta osarono impossessarsi del grande arco di Ulisse che solo costui riusciva a tendere.
Infatti l’arco era talmente rigido che nessuno di quei giovinastri smidollati riuscì a piegarlo per scagliare almeno una freccia.
Ad un certo punto Ulisse, disgustato da tali atteggiamenti, si fece avanti chiedendo umilmente di poter tentare l’impresa.
Tra risa di derisione e di scherno gli venne offerto l’arco e Ulisse, recuperato d’incanto l’antico vigore, riuscì a tenderlo ed a scagliare una freccia contro uno dei pretendenti che ancora lo stava beffeggiando.
Ulisse continuò così a scoccare frecce una dopo l’altra che fendevano l’aria e uccidevano tutti i pretendenti che non riuscivano a fuggire.
Solo allora Ulisse fu riconosciuto dalla moglie Penelope, dal figlio Telemaco ed anche dal vecchio padre Laerte.
Tutti commossi, ma felici corsero ad abbracciare Ulisse baciandolo e stringendolo a sé.
Era passato tanto tempo dall’ultimo bacio e, per fugare ogni ombra di dubbio, Penelope chiese a Ulisse di andare in camera da letto e di portare fuori il vecchio letto per ripulire bene la stanza dove nessuno aveva più dormito.
Ulisse, ben sapendo che il letto lo aveva costruito lui nel tronco di un ulivo secolare, le rispose che neppure con l’aiuto dei due più forti buoi di Itaca sarebbe riuscito a smuovere il letto di un solo centimetro.
A quelle parole Penelope sorrise ed una luce illuminò il suo volto, sembrava avesse venti anni di meno, baciò di nuovo Ulisse con ancora più affetto e passione.

Da allora vissero tutti felici e contenti per tutta la vita...

Omero & Massimo (della serie: " mi piaccion le fiabe, raccontane altre....")

 

Racconto di Massimo Mannucci

E-mail: ma.mannucci@tiscalinet.it

 

Queste e molte altre avventure visse Ulisse,
e sono narrate in un antico libro intitolato 'Odissea' scritto da Omero

Scopri qui gli ipotetici luoghi ove si svolsero le avventure narrate nel racconto di Ulisse


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