Marta Vincenzi
Liceo Scentifico Statale Enriques di Roma
Anno Scolastico 2001/2002




Caporossi ed i suoi roditori



Ero decisa a intervistare l'uomo, ma del regista sapevo già alcune cose.
Sapevo che dagli anni settanta si era distinto sulla scena per aver stravolto antiche convenzioni del linguaggio teatrale e che la sua ultima produzione, AION, era uno spettacolo fatto di gesti e di musicalità ma non di parole.
La mancanza del testo aveva lasciato esterrefatti i ragazzi del laboratorio: alcuni erano spaventati dalla sua recita silenziosa, altri non la comprendevano, una parte confessava di aver subito un vero trasporto emotivo generato da suggestioni indescrivibili ma di certo innegabili.
Qual e' dunque il potere di questo nuovo codice?
E soprattutto, perché nell'era della comunicazione di massa, intenzionalmente inequivocabile e palese, e nell' affascinante Babele degli infiniti idiomi di questo mondo, un regista si espone al rischio dell' incomprensione negando il verbo ai suoi personaggi?
Questione intrigante.... ma vediamo come il problema può essere cruciale!
Caporossi si lascia intervistare proprio "dietro le quinte" del palcoscenico.
Gli attori dopo aver raccolto calorosi applausi, si ritirano.

-Signor Caporossi, il suo spettacolo lascia sgomenti. Lei parla con il ritmo dell'azione. In sala si respira un messaggio umano e profondo, come fosse dissolto nell'aria. Ma questo messaggio è criptato… ritengo volutamente. Perché sceglie di comunicare in maniera così singolare: la parola non è abbastanza?

-Vedi, forse non è stata una scelta consapevole. A 19 anni ho conosciuto Remondi, che faceva teatro già da tempo, e con lui iniziammo a scrivere dei testi che poi mettevamo in scena: la compagnia "Remondi & Caporossi" era composta da noi due soltanto. Io però non avevo mai studiato come attore ed avevo sempre avuto una repulsione verso le battute parlate, che non riuscivo a recitare. Così le limitavo all'indispensabile e presto scoprimmo che era possibile comunicare molte cose anche con i gesti. Tanto che, in molti spettacoli, i gesti stessi diventavano protagonisti assoluti: una volta tenemmo una rappresentazione in cui l'unica trama era quella grandissima fatta di fili veri che io e Remondi tessevamo sul palco appesi con delle funi; in un'altra occasione costruimmo in diretta, mattone su mattone, l'intera scenografia!

-Allora la scelta fu casuale! Mi scusi, immaginavo che fosse stata la soluzione, magari sofferta, ad un problema di incomunicabilità più profondo…

-In effetti questa componente non è mancata.

-Ma la vostra non è stata una critica provocatoria verso la società?

-No, questo no. Ma siamo rimasti sempre fedeli alla strada intrapresa all'inizio. Fu un'esigenza espressiva… sorta spontaneamente. Una critica teatrale disse che nei nostri spettacoli "sono gli oggetti a prendere la parola".

-Dunque non si può dire che sia stata il frutto di un disagio giovanile?

-Direi di no. Oggi ho 50 anni e non ho cambiato idea; Remondi stesso, quando cominciammo aveva 40 anni.

-Le chiedo questo perché ritengo che il problema sia comune a molti giovani. Per esperienza personale so che è difficile esprimere delle tensioni interiori che sono un insofferenza verso il "mondo adulto".
Sembra che la società non abbia abbastanza mezzi per comprenderci.
(Caporossi mi guarda dubbioso…!)
Chiarisco: non crede ad esempio che la scuola, la quale dovrebbe metterci a disposizione tutte le armi possibili per esprimerci come persone ci intrappoli, invece, in degli schemi riduttivi? Il linguaggio che ci insegnano spesso è soltanto verbale… lo riproduciamo meccanicamente. Dov'è la creatività???

-Non è facile a dirsi, però posso risponderti con coscienza.
Prima di dedicarmi completamente al teatro ERO PROFESSORE!! Insegnavo storia dell'arte e mi accorgevo di quanto fosse difficile dare un giudizio agli studenti.

-Appunto! Non pensa che "bollare" uno studente con un cinque perché non sa scrivere piacevolmente equivalga sminuire le infinite possibilità di un individuo? E non pensa che la scuola ci metta in mano SOLO quegli strumenti che sono "utili alla catena di montaggio"?

-Vuoi una risposta perentoria? Si, è ovvio!

-Bisognerebbe ricordarsi che questo sistema vale quel che vale!
L'ultima domanda: lei, un modo per farsi capire l'ha trovato! Ma i suoi spettacoli parlano spesso delle più intime sfumature dell'animo umano. E i problemi attuali? Non interpreta il suo lavoro come una missione?


-Se intendi dire che i miei spettacoli sono "volutamente" una critica alla società… devo deluderti!!!
Non li ho mai intesi in questo senso!
Almeno in prima istanza rispecchiano soltanto i miei stati d'animo, rispondono alle domande che mi pongo… secondo il mio modo di comunicare. Che è quello che io trovo più efficiente. La mia non vuole essere una missione.

Gli attori attendevano impazienti fuori dal camerino, era giunto il momento di ringraziare e andar via.
Con una questione insoluta tuttavia.
E' dunque impossibile conciliare la voglia di esprimerci liberamente, con l'utilità sociale di quel che facciamo?
Fra un artista che vive al di fuori del mondo (scelta egoistica!)e la pedina mansueta di questo scacchiere in cui sono gli altri a fare le mosse, non c'e' una via di mezzo?
Caporossi era troppo modesto per darmi una risposta: ma mentre esco dal teatro mi torna in mente la conclusione del suo spettacolo:

-Al mondo- dice il regista -esistono quattro tipi di uomini: gli orizzontali, i seduti, i verticali e quelli in moto. Tutti sono soddisfatti della loro condizione: non peggiorano né migliorano. Solo quelli in moto non si fermano mai.
Disturbano i pigri orizzontali, i rigidi verticali e rodono: rodono i banche e le sedie dei seduti presuntuosi che tutto vogliono dirigere senza sporcarsi le mani.-

Forse un compromesso l'ho trovato: perché senza avere la presunzione di cambiare il mondo si può agire senza sosta…. e rodere alle basi un meccanismo che ci vuole tutti immobili e passivi.
Esprimere se stessi è gia disubbidienza!!!!!!!



Tratto da "Federigo", il giornale degli studenti del L.S.S. Enriques





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