Iconografia preistorica e archetipi figurativi* G.Brusa Zappellini  

 

Gli ultimi segreti dell’esistenza

e del non essere guardano l’uomo

con occhi spaventosi.                                                                          

Walter Friedrich Otto

 

1.L’ingente patrimonio artistico portato alla luce dalla ricerca preistorica contemporanea è indubbiamente destinato a modificare non solo alcune categorie forti di ricostruzione del passato, ma le nostre stesse convinzioni intorno alle origini della cultura e della civiltà. Se l’analisi della sintassi figurativa delle prime forme d’arte, nel loro complesso intreccio di pittogrammi e ideogrammi, rende del tutto problematica la scansione che affida alle scritture del IV millennio la responsabilità di inaugurare la storia, ancora più problematica appare tutta la tradizione che colloca le nostre origini in contesti relativamente recenti. Non mi riferisco qui ovviamente alle “origini biologiche” della nostra specie che già l’evoluzionismo ottocentesco ha dislocato in tempi remoti. Penso, invece, alle origini delle strutture simboliche che stanno alla base della nostra attività di pensiero.

Non dal contesto omerico e biblico, come pensava il mondo pre-moderno, non dall’Egitto, come riteneva l’illuminismo settecentesco, né dalla “sacra Ellade caucasica” come credevano i romantici, non dal bacino mediterraneo pre-ellenico o dalla culla mesopotamica o ancora dalle “zone linguistiche” indoeuropee, come si ipotizzava alla fine dell’ottocento, provengono le prime forme culturali, ma la matrice del pensiero simbolico, nella sua complessità logico-ideativa, sembra appartenere alla memoria sommersa di una grande area comune che precede tutte le differenziazioni particolaristiche.

Probabilmente le prime grandi civiltà non sono nate, come si insegnava a scuola, intorno ai grandi fiumi, ma si sono costituite intorno ai focolari delle più antiche culture di caccia e raccolta, nelle ritualità arcaiche in cui la nostra spiritualità nascente ha iniziato a celebrare i suoi primi misteri.

Di questo passato remoto, ma ancora presente negli spazi più integri dell’anima, l’arte preistorica conserva le più significative testimonianze. Pensiamo alle grandi immagini zoomorfe dipinte nella profondità delle grotte, alle Veneri dalle forme opulente, alle ossa di renna finemente incise, alle selci lavorate, alle statuette animalistiche d’avorio di mammut.

Ora, se per l’archeologo è relativamente semplice orientarsi nei contesti narrativi delle civiltà “storiche”, per chi voglia ricostruire la visione del mondo delle  culture preistoriche, una “visione” che attinge a fonti prevalentemente “visive”, il lavoro paradossalmente si complica, costringendo l’asse portante della ricerca su un piano ottico-iconologico che la nostra tradizione di pensiero ha costantemente subordinato a forme di rielaborazione del sapere di carattere auditivo-letterario.

Eppure, proprio nelle prime immagini paleolitiche, nella loro forza evocativa e nella loro straordinaria bellezza, sembra già racchiuso, in nuce, tutto il patrimonio ideativo delle culture successive.

Se questo è vero, alla ricerca preistorica si aprono allora due diversi orizzonti indagativi:

a)      uno tutto interno al contesto delle origini;

b)      uno che da questo deborda fino a includere, in un complesso lavoro di raffronto, le culture tradizionali contemporanee. Quelle culture che, fino a qualche anno fa, gli antropologi chiamavano tribali, primitive o selvagge.

a)      Al primo orizzonte appartengono: sia un precorso “sincronico” che potremmo definire di morfologia comparata dei temi figurativi,  sia un percorso “diacronico” che potremmo definire di ricostruzione degli stili. Assumendo la nota scansione di Emmanuel Anati dello sviluppo delle culture materiali preistoriche (cacciatori arcaici, raccoglitori arcaici, cacciatori evoluti, pastori-allevatori, economia complessa), potremmo infatti procedere sia ad analisi comparate di tipologie che appartengono al medesimo contesto figurativo -ad esempio quello dei cacciatori arcaici- sia ad analisi comparate di forme figurative dei momenti di transizione -ad esempio dai cacciatori arcaici alle società dei pastori allevatori, e così via-.

b)      Al secondo orizzonte appartengono invece tutti quegli scenari che si affidano alla comparatistica etnografica, scenari che già la ricerca del secolo scorso ha ampiamente allestito ricorrendo all’antropologia e all’etnologia e costruendo, col loro soccorso, un teatro della memoria delle origini per molti aspetti problematico, ma denso di potenzialità intrepretative dovute allo status sostanzialmente ambivalente delle società tribali. Il mondo primitivo, infatti, è una sorta di paradossale “presente remoto”: è indubbiamente fuori dei tempi della preistoria ma, in un certo senso è ancora tutto interno ai suoi ritmi.

 

Ora, lo straordinario “museo immaginario” che lo studioso di arte preistorica può oggi percorrere, sembra offrire però, da alcuni anni, anche la possibilità di un approccio comparatistico diverso, fondato sulla analisi delle linee di rottura e di continuità dell’immaginario figurativo nel suo passaggio dal mondo preistorico al mondo antico, una analisi fondata sulla più generale convinzione che le vicissitudini degli stili e delle associazioni tematiche dell’arte visiva illustrino le dinamiche dei nostri stessi processi cognitivi. La permanenza di tipologie figurative che dalla preistoria migrano nelle culture proto-storiche e storiche è straordinaria. Alcune immagini che troviamo nelle grotte le ritroviamo quasi identiche sui vasi arcaici del Vicino oriente come sui frontoni dei templi greci, sui sigilli micenei come sulle pareti delle piramidi egizie. Ma cosa indica questa continuità?

A questo punto è necessaria una precisazione.

Ogni espressione simbolico-figurativa ha che vedere, nella sua spinta originaria, cioè nella sua matrice emozionale, con elementi di concretezza materiale radicati nella fisicità dell’esperienza sensibile. L’immagine, intesa come grande contenitore formale d’energia psichica, dà all’emozione una consistenza visiva, pur non esaurendo in essa la sua spinta originaria. (In particolari contesti magico-sacrali può essere, in effetti, la stessa immagine a porsi quale elemento propulsore e moltiplicatore dell’emotività che la ha, alle origini, determinata).

Prima ancora delle analogie formali dell’organizzazione dei segni, è necessario dunque interrogarsi sul contesto emozionale che sta alla base dell’emergenza di questi segni: figurazioni ricorrenti affondano infatti le loro radici, prima ancora che nel gesto creativo, nella ricorrenza di momenti concreti, radicati nella fisicità dell’esperire.

Intorno a questi nuclei psicologici a forte concentrazione emotiva (morte/vita-castrazione/sessualità) si viene a costituire una sorta di campo magnetico che, attraendo la fantasia, la spinge a organizzarsi in contenitori formali paradigmatici. E’ in questi contesti che l’immagine, catturando la carica emozionale, le offre la “via di fuga” dell’organizzazione figurativa. L’immagine, potremmo quasi dire, alle origini, è una sorta di precipitato rituale di un’esperienza emozionale forte, reiterata probabilmente per millenni. Ma per comprendere questa esperienza delle origini non abbiamo, paradossalmente, che il suo “precipitato figurativo”. O poco più.

Per intenderci, è come se esistessero nella vita psichica territori fortemente radioattivi che le immagini depositate nella memoria segnalano attraverso l’oscillazione dei loro valori magici e simbolici.  Organizzazioni figurative analoghe indicano, potremmo quasi dire, campi emozionali analoghi, contesti di esperienza simili, anche se le tipologie grafiche, nel corso dei secoli si sono poi piegate a esigenze espressive diverse.

A partire da questa premessa, quanto segue potrebbe sintetizzare le linee-guida di questa nuova comparatistica:

1°- individuazione e analisi di quei temi figurativi dell’arte parietale e rupestre preistorica che più sembrano raccogliere l’emozionalità del vissuto e contenere una forza evocativa densa di potenzialità simboliche (archetipi figurativi);                                                                                                                                         

2°- raffronto di queste immagini con quelle figure paradigmatiche dell’arte antica che nelle loro caratteristiche iconografiche conservano la memoria degli schemi figurativi originari;

3°- analisi del significato emozionale degli schemi figurativi e delle oscillazioni del loro valore simbolico nell’iter di sviluppo dalla preistoria alla storia.

  

2. L’arte preistorica offre alcune immagini di grande impatto emotivo che sembrano azzerare le distanze temporali che le separano da noi esplodendo dentro la coscienza contemporanea con una forza propulsiva straordinaria. Uno studioso di formazione junghiana parlerebbe qui probabilmente di archetipi che appartengono al nostro inconscio collettivo, immagini che, in ogni caso, sembrano raggiungere, con estrema immediatezza gli strati più vulnerabili della nostra vita psichica attraverso la strada più spedita e diretta.

Vediamone un esempio. 

 

Salto euforico e funghi allucinogeni

. Stile delle “Teste rotonde”. (ca 5.000 a.C.) Tassili Algeria (WRA-CCSP) Codice Area: C-II. Cat.: A-IV;

 

 

 

Cinque figure antropomorfe sembrano danzare in preda ad un’eccitazione orgiastica (danza/corsa ritmica). Il volto-maschera è frontale; le figure recano nella mano destra dei funghi dai probabili effetti allucinogeni da cui si diparte una serie parallela di puntini nella direzione della testa. Intorno alle figure vediamo un’esplosione di decorazioni puntiformi e serpentiformi. L’insieme delle immagini, abbandonate nei ritmi di un rapido movimento, evoca l’idea vitalistica di una sorta di frenesia dionisiaca. La loro particolare postura potrebbe venir schematizzata in una svastica.

Facciamo ora un salto azzardato di millenni.

La Gorgone Medusa e il “salto euforico”

Le diverse immagini della Gorgone Medusa presenti per lo più nell’arte ceramica arcaica, fin dalle prime apparizioni certe nel VII secolo a.C. (alla fine dell’VIII a.C. è datata una maschera fittile di Tirinto identificabile con Medusa), hanno tutte, nelle diverse varianti corinzie, attiche e laconiche, alcuni caratteri costanti che ci consentono di definire uno schema iconografico caratterizzato dai seguenti elementi:

a) la frontalità. Il volto orribile e immoto di Medusa guarda noi che la stiamo guardando, coinvolgendoci così in una sorta di contagio mimetico: ci immergiamo nel suo sguardo. Questo carattere di fissità è ulteriormente sottolineato da immagini ceramiche arcaiche che ne inquadrano il volto fra due grandi occhi apotropaici.

b) la natura ibrida. La dimensione antropomorfa e la dimensione teriomorfa sono in Medusa costantemente mescolate: capelli serpentiformi, orecchie bovine, zanne di cinghiale pongono la dea in bilico fra umano e ferino collocandola in una zona di confine contigua al cháos di quelle potenze primigenie da cui ha avuto origine.

c) la maschera. La testa mozzata di Medusa, il gorgóneion,  viene ad assumere il carattere apotropaico di una maschera e come tale la troviamo su scudi, metope, antefisse, acroterii, monete, ecc.

d) la postura a svastica.  Medusa viene spesso rappresentata in una strana, innaturale postura che alcuni hanno definito del “salto sulle ginocchia”, una postura la cui schematizzazione geometrica produce una svastica.

Ora, tutti questi caratteri tipicizzanti sono riscontrabili anche nell’immagine rupestre africana dei “funghi allucinogeni”.

Tra le diverse raffigurazioni della Gorgone una, in particolare sembra offrire analogie sorprendenti e precisamente l’immagine del frontone del tempio d’Artemide di Corcira (Corfù) (VI a.C.) che rappresenta Medusa a corpo intero nella postura “a svastica”.

 

Raffrontando la Medusa greca con le figure danzanti africane possiamo rilevare, dunque, oltre alla frontalità del volto, caratteristica rara nell’arte preistorica e antica,  anche il dinamismo della postura: più sciolto e fluttuante nelle immagini africane, quasi ritualizzato nella staticità del bassorilievo greco.

Ma la Gorgone non è nel pántheon greco l’unica creatura mitica ad assumere questa  posizione. Baccante di Hades, Medusa condivide coi Satiri, i Sileni e le Menadi scatenate questa del tutto innaturale modalità di atteggiare il corpo, con le membra che paiono disarticolate.

E’, del resto, interessante rilevare qui che le Menadi invasate masticavano, durante i riti orgiastici, foglie d’alloro che contengono cianuro di potassio dall’effetto allucinogeno.

 

Potremmo allora vedere in questa iconografia non tanto una “corsa sulle ginocchia” quanto piuttosto un “salto euforico”, indicatore di uno stato di eccitazione orgiastica.

Ora, la stessa tipologia è presente in area semitica, nelle rappresentazioni di Khumbaba (in particolare sui sigilli di Nuzi) che illustrano L’epopea di Gilgamesh.

 

 

Khumbaba è un mostro caotico, arcaico e primigenio, rappresentazione della violenza scatenata della natura; uccide non con lo sguardo come Medusa, ma con il fiato. Per questo, quando Khumbaba viene decapitato da Gilgamesh, l’eroe divino è costretto a volgere in dietro la testa. Anche Perseo era stato costretto ad affrontare Medusa “di sbieco”, con un “raggiro”, individuando cioè la sua presenza funesta dal riflesso di rimando dello scudo.  

Numerose sono, del resto, le analogie fra Medusa e Khumbaba. Il mostro mesopotamico dimora vicino alla foresta dei cedri come la Gorgone, vicino al giardino delle Esperidi.

Nella stessa ceramica attica arcaica del VI secolo a.C. le rappresentazioni di Perseo che uccide la Medusa non sono sostanzialmente distinguibili da quelle di Gilgamesh che uccide Khumbaba. Ciò che, in ogni caso si mantiene è la postura euforica.

 

 

Del resto la stessa più antica rappresentazione del volto di Khumbaba (terracotta di Sippar) rimanda al groviglio delle viscere degli animali sacrificali che sembrano evocare il groviglio delle serpentine dei capelli della Medusa.

 

 

Al di là di queste vicinanze e di altre che non è difficile individuare, ciò che qui ci interessa è che, in area mesopotamica, agli inizi del II millennio, ritroviamo la stessa tipologia figurativa dei “funghi allucinogeni” e della Gorgone greca: frontalità, tratti atropo-zoomorfi, postura a svastica.

Possiamo concludere che siamo sulla strada della individuazione di un continuum figurativo o solo sul fragile terreno delle analogie accidentali?

Che la postura euforica e la schematizzazione della svastica abbiano una relazione stretta è evidente anche in altre iconografie dell’area africana, eurasiatica e americana.

Vediamone due esempi.

 

Si tratta, nel primo caso, della guarnizione di un sacchetto di pelle degli Schango dell’Africa occidentale e, nel secondo, di una immagine incisa su una conchiglia proveniente dal Kentucky (Nord-America). 

   La svastica, come è noto, è uno degli ideogrammi più antichi e universali in assoluto. Lo troviamo in Mesopotamia a partire dal IV millennio, nella ceramica elemita di Mussian Tepe presso Susa, sulla Bandkeramik danubiana, nella cultura villanoviana, nella ornamentazione geometrica attica, sulle tavolette vallinde, in Tibet, e così via. La lettura attuale tende per lo più a coniugare questo segno -come del resto la “rosa camuna” e la “girandola celtica” intese sostanzialmente come variazioni sul tema- con il dinamismo cosmico del disco solare e della sua rotazione.       Questa valenza simbolica potrebbe però essersi prodotta come una sorta di sovradeterminazione tarda di un senso più antico, probabilmente connesso a una ritualità sciamanica e alla potenza energetica indotta dell’uso di certe sostanze psicotrope. Questo ne giustificherebbe il rapporto iconografico con la postura euforica.

   Si pone a questo punto una questione: la postura euforica può essere considerata una sorta di figurazione naturalistica-antropomorfica della svastica e dunque una sua naturalizzazione, o potrebbe essere vero il contrario, cioè che è la svastica a essere una schematizzazione della postura euforica?

    O meglio, la svastica è la geometrizzazione di un originario motivo naturalistico o è piuttosto la postura euforica a porsi come la naturalizzazione di un più antico ideogramma?

    Agli inizi del Novecento, la filosofia, per lo più di area tedesca, si è a lungo interrogata sulle ragioni profonde che hanno motivato le “scelte stilistiche” (Kunstwollen) delle diverse culture nella convinzione che l’opzione naturalistica o l’opzione astratta in ambito artistico corrispondano, in realtà, a esigenze diverse di carattere sostanzialmente psicologico. 

   In questo orizzonte estetico, l’astrazione, intesa come una sorta di presa di distanza dalla natura motivata da un originario desiderio di rassicurazione concettuale, è  stata vista come uno stile più primitivo, precedente le forme naturalistiche e mimetiche di rappresentazione del vero. La geometrizzazione sarebbe il tentativo di ordinare la vitalità pericolosa del mondo in un contesto in cui la natura esterna tende a presentarsi come terrificante.

    Dunque, l’arte delle origini sarebbe “astratta”. Solo in un secondo momento, l’uomo, capace di controllare la realtà che lo circonda, potrebbe lasciarsi andare alla immedesimazione (Einfühlung) degli “stili realistici”.

    E’ evidente che queste conclusioni risentono di un quadro “darwiniano” del dramma delle origini oggi, per certi aspetti, lontano. Del resto, le stesse scoperte paletnologiche del secolo appena trascorso sembrano, da un certo punto di vista, aver superato la questione: le prime testimonianze artistiche della nostra specie, pensiamo ad esempio ai dipinti paleolitici della Grotta Chauvet, vedono insieme motivi pittografici di carattere naturalistico e motivi ideografici di carattere “astratto”.

    Certamente alcuni ideogrammi preistorici sembrano conservare la memoria di una originaria derivazione naturalistica.

   La loro probabile origine è ben evidenziata da Leroi-Gourhan che vede in certi segni allungati (“lineette, bastoncini, file di punti”) la schematizzazione di rappresentazioni realistiche maschili (falliche) e in certi segni pieni (“ovali, triangoli, rettangoli”) la semplificazione di rappresentazioni realistiche femminili (vulvari).

 

 

Per altri ideogrammi però questo raccordo non è così evidente.

Sarebbe interessante chiedersi qui fino a che punto potremmo addirittura pensare a una eredità espressiva del Neandertal, quel Neandertal che in Europa, assai prima dell’arrivo della nostra specie, incideva nei suoi siti tacche e coppelle. Le stesse tacche e le stesse coppelle che i mostri diretti antenati hanno poi continuato a tracciare per millenni.

Ma torniamo alla svastica e alla “postura euforica”.

Dal loro raffronto, potremmo, allora, essere portati a pensare che il “contenitore formale” dell’emotività orgiastica abbia potuto trovare e mantenere nel tempo, come una sorta di “archetipo figurativo”, questa particolare tipologia grafica?

Certamente no. O meglio, non in questi termini. La peregrinazione di questo simbolo è ovviamente assai più complessa. La connessione che qui abbiamo evidenziato potrebbe però offrirsi come paradigma indiziario del significato di un segmento della sua migrazione dal contesto preistorico al mondo antico.

 

 

·        Revisione dell’intervento al Valcamonica Symposium, XIV edizione, 1996, pubblicato in Atti del Convegno, “Immagini, simboli e società” a cura del Centro Camuno di Studi Preistorici, Capo di Ponte (Brescia) ora in G.Brusa-Zappellini, Arte delle origini/Origini dell’arte. Sulla nascita delle immagini, Arcipelago Edizioni, Milano 2002.  

 

 

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