Il dio dalla falce affilata

Dalla Teogonia di Esiodo. Note a margine

Gabriella Brusa Zappellini

       Se il mito è, come sostiene Freud, il sogno secolare di un'umanità ancora giovane, immergersi nel suo universo, apparentemente caotico e fabulatorio, non è un'operazione del tutto estranea al lavoro della psicoanalisi, un lavoro che taglia le parole attraversandole da ogni lato.

    Del resto, anche le parole del mito, depositate nei testi dopo interminabili passaggi di voce in voce, sembrano conservare ancora, per chi le interroga con le armi taglienti della filologia, un nucleo essenziale, sostanzialmente inconsapevole e indifferente a quell'esigenza comunicativa che vi ha tessuto intorno, nella storia, i suoi molteplici strati di senso.

 Passando attraverso le zone vegetali dei testi arcaici, affiorano, ancora visibili in superficie, le radici, straordinari reperti fossili del linguaggio che custodiscono gli elementi primi delle parole, lasciandone filtrare, in trasparenza, le strutture elementari di significato.      

 Gruppi di suoni che riecheggiano in ogni luogo del testo, le radici costantemente ritornano in termini lontani, svelandone le antiche parentele.

   Nelle cosmogonie arcaiche, sono le radici connesse all'atto del tagliare (ker, kerp, kas, kad), al gesto netto e deciso che separa l'originaria unità indifferenziata, a risuonare in ogni dove, unificando, in una sola, grandiosa assonanza di pensiero, mitologie lontane per area culturale e geografica. 

    L'antica radice indoeuropea ker (kad) è, del resto, ancora probabilmente presente nella nostra parola cena; non, dunque, etimologicamente, momento del pasto comune (cum edo), ma luogo in cui il cibo viene spezzato e ripartito. Luogo originario, che rimanda all'albeggiare della coscienza umana, alle prime comunità di ominidi che dai carnivori avevano mutuato un'abitudine nuova, sconosciuta alle scimmie antropomorfe, quella di smembrare la preda, ripartendone i resti.

    Ancora la medesima radice ritorna nel termine seme. Qui ad essere divisa è la spiga di grano. Nei campi, nelle zolle tagliate e divise, i semi si moltiplicano, ricompensando la collettività neolitica della rinuncia al consumo immediato di tutto il raccolto.

   Nei miti cosmogonici, questa stessa necessità vitale, che esige che l'uno produca i molti, è assunta e fatta propria dalle potenze primigenie: perché l'ordine del mondo possa trionfare è destino che un dio tagli o venga tagliato.

   Così, agli inizi, la Grande madre mediterranea, Eurinome, emersa nuda dal Chaos, separa, per prima cosa, il mare dal cielo, allo stesso modo di Elohim che, nella lontana area semitica, divide il cielo dalla terra, ripetendo l'antico gesto di Marduk che aveva spezzato in due, come un'ostrica matura, il corpo morto di Tiamat, gettandone le parti in su e in giù, per formare il mondo.

   Anche nei Rig-Veda, il dio Indra mette ordine nell'universo tagliando, con un colpo netto e deciso, la testa del serpente Vrta, mentre Brahaman, padre di tutti i mondi, separa l'uovo cosmico con la forza di una sola parola, formando con i due gusci il cielo e la terra.

   Nei grandi miti della grecità, gli dèi terribili del Chaos, emersi dagli abissi delle origini, dalle voragini spalancate in cui tutto si mescola a tutto, non possono sottrarsi al compito che li chiama, al rito antico che vuole che in cielo un dio si smembrato e fatto a pezzi perché in terra regni la vita e la messe sia rigogliosa.

   Lo cantano le Muse, dalla bella voce concorde, custodi delle origini. E intanto danzano, le maliarde, fra le nebbie notturne dell'Elicona.

 coi piedi molli intorno alla fontana violacea,

la bellissima voce emanando(3-10)*

   Le ascolta il padre Zeus nelle sue alte stanze e si compiace. E ride del loro canto che narra di un dio castrato dal figlio. Dunque, agli inizi, un atto di castrazione. Dunque, un etimo che solo una filologia ingenua vorrebbe avvicinare a castità, ma che più probabilmente rimanda alla radice kas (kad), che esige il taglio: che la falce affilata passi dalle mani da Gaia, la madre terra, a quella del figlio Crono, affinché il destino si compia.

Perché veramente dapprima il Chaos nacque,

ma poi venne Gaia dai fianchi larghi.

E Gaia, per prima cosa, da se stessa generò, a sé simile,

Urano stellato,

 affinché tutta avvolgendola la coprisse(116-127)

   Urano primordiale è un'emanazione cosmica, un doppio della terra, una terra al maschile, generato senza calore di amplesso e destinato, fin dal nome (dalla radice var-coprire), ad avvolgere di sé l'elemento materno, femminile, come un guscio esterno. Ma i figli che nascono da questa pulsione originaria, cieca e coatta, che non conosce né il terrore dell'incesto né l'angoscia della rinuncia, il padre Urano:

li odiava fin da principio,

 per questo li nascondeva nelle viscere della terra

e non li lasciava uscire alla luce.

E in questa malvagia azione

 provava un grande piacere(154-158)

   Costretto all'amplesso, Urano, a sua volta, obbliga i figli a un'unione permanente e coatta con la madre.

L'immensa Gaia oppressa tanto terribilmente

ne soffriva

 che decise un'astuzia malvagia(159-160)

   Trasse, dunque, la madre terra dalle sue viscere una falce argentea e affilata e chiamò i figli a raccolta: "Figli miei d'un padre scellerato, vendichiamo l'oltraggio!". Terrorizzati ammutoliscono i figli e si nascondono pieni di paura. Soltanto l'ultimo genito, Crono dai pensiero tortuosi si fa avanti:

Madre ti prometto che compirò l'impresa

 poiché non mi curo del nome scellerato di nostro padre

 che per primo compì opere così infami (170-173).

  Il figlio più giovane rifiuta, dunque, il nome scellerato del padre, il suo nomos, cioè quella legge caotica e primordiale che, avviluppando il tutto in un abbraccio forzato, non consente agli elementi di liberarsi e scindersi. E Crono, da kraino/compio, non può che raccogliere la sfida, racchiudendo in sé, fin nella sua etimologia, la sua missione di esecutore. Ma perché non avvertire nel suono del suo nome anche la presenza dell'antica radice ker? Allora, Crono, il tagliatore, o meglio, colui che compie l'opera tagliando. Esiodo lo chiama Crono dai pensieri tortuosi, con un termine greco, ankulometes,  che, alla lettera, implica l'idea di un'astuzia che non lascia scampo, che non ha vie d'uscita, di un agire intrappolato in quel punto cieco in cui due segmenti, incontrandosi formano un angolo che preclude ogni possibilità di fuga.

   Così Crono, che odiava fin da principio il padre, non può sottrarsi al destino che lo chiama.

Molto si rallegrò l'immensa Gaia

e lo nascose nel luogo propizio all'agguato,

dandogli nelle mani la falce affilata(174-175

   La falce karcharodonta.

   Ed ecco, di nuovo, riecheggiare la radice ker, coi suoi terribili bagliori di morte. Simbolo di un arcaico potere di madri irate, freddo astro lucente che nel cielo notturno minaccia, con la sua lama sottile e mobile, la quiete del cosmo.

Venne la Notte e con lei il grande Urano, ardente di amore,

a coprire Gaia da ogni parte(176-178).

E' questo il momento. Terribile, penoso immaginario notturno di figli vigorosi lasciati in solitudine.

Strisciando sul braccio sinistro, Crono esce allo scoperto, fuori del luogo favorevole all'agguato.

E con la destra impugnò la mostruosa falce,

immensa, affilata e rapidamente recise i genitali del caro padre

scagliandoli dietro di sé(179-183)

  Ed ecco che dalla virilità recisa del padre, caduta nel mare, si leva, prodigio di stupenda metamorfosi, la bella, aurea Afrodite, la spumeggiante dea dell'amore.

   Così l'eros primordiale muore; così nasce la radice nuova del desiderio amoroso.

Così canterà il nostro Poliziano:

Nel tempestoso Egeo in grembo a Teti

Si vede il frusto genital accolto,

Sotto diverso volger di pianeti

Errar per l'onde bianche in schiume avvolto;

E dentro nata in atti vaghi e lieti

Una donzella non con uman volto

Da' Zefiri lascivi spinta a proda,

Gir sopra un nicchio; e par che 'l ciel ne goda.

 

* Esiodo, Teogonia, VIII a.C.  

 

 

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